Sempre più anche in Italia il benessere dei dipendenti è uno dei fattori chiave per il successo dell’impresa
Un lavoratore felice lavora meglio e di più. Sull’esempio americano, dove l’attenzione per condizioni di lavoro in aziende come Apple e Google va di pari passo con gli incrementi di fatturato, anche nel nostro Paese si fa strada una nuova cultura di welfare aziendale. Quasi l’80% delle aziende di grandi dimensioni, più di 500 addetti, restituiscono ai propri dipendenti, in termini economici o di beni e servizi, parte dei ricavi che hanno contribuito a produrre con il loro lavoro. E non si tratta di beneficenza, le cifre parlano chiaro: ogni 150€ d’investimento in welfare aziendale, tra detassazione ed aumento della produttività, ne ritornano in cassa almeno 300.
Le tante strade per un impresa che sorride
Gli esempi sono molti e differenti, a partire dalla Alessi, che nel 2013, in piena crisi economica, invece di mettere in cassa integrazione gli operai, li ha pagati, di tasca propria, per lavori utili alla comunità. Oppure, la Lanfranchi, l’azienda italiana leader mondiale per le chiusure lampo che paga i premi di risultato in denaro o, a scelta, in buoni per servizi come asili nido o borse di studio. Le scelte di welfare aziendale sono innumerevoli e spaziano dai prestiti interni e la consulenza per i mutui ai servizi sanitari integrativi, dai pasti take away a prezzo politico offerti dalle mense aziendali ai permessi matrimoniali anche per le unioni civili incluse le coppie omosessuali, dai pacchetti di viaggio agli abbonamenti ai centri benessere. Lo scopo è duplice. In primo luogo premiare la produttività e promuovere la serenità in azienda e nei rapporti di lavoro. Poi, e forse soprattutto, fidelizzare i dipendenti che con le loro esperienze e competenze lavorative e professionali rappresentano il vero patrimonio, unico ed inimitabile, di conoscinza e cultura di brand di ogni impresa che sappia far valere la propria personalità sul mercato.
Una tradizione che viene dal passato…
L’intuizione di Adriano Olivetti, industriale piemontese, che, partendo dalla fabbrica di macchine da scrivere di famiglia ha creato la prima industria informatica del Paese, in grado fino agli anni ’70 di contendere alle multinazionali usa il dominio del mercato, non è quindi morta. Olivetti aveva infatti teorizzato in numerosi saggi un’economia comunitaria, dove imprenditori e lavoratori sono alleati, in una logica non di profitto, ma di partecipazione e di sostenibilità, per il successo dell’azienda ed aveva trasformato l’idea in realtà, creando un modernissimo sistema di welfare aziendale. Un’esempio imitato nel tempo da numerosi altri imprenditori illuminati e che oggi ritorna al successo in tutto il mondo occidentale.
… e che vive nel presente
Un messaggio, quello di Olivetti raccolto dalle aziende tradizionali, che si ritrova in pieno, rafforzato e fatto filosofia d’impresa, all’interno del sistema cooperativo, dove la partecipazione dei soci-lavoratori alle scelte dell’impresa e alla redistribuzione dei profitti, non è eccezione ma regola. Nell’impresa sociale, più che in altri ambiti imprenditoriali, il rischio d’impresa è condiviso nella buona e nella cattiva sorte. Lo dimostra il fatto che, secondo i dati, il comparto è il primo a livello nazionale per nascita di nuove imprese e crescita dell’occupazione. Questo, accade in un panorama economico devasto dalla crisi, con una disoccupazione a 2 cifre ed aziende che chiudono o lasciano l’Italia per Paesi con un clima più favorevole agli investimenti. Un modello economico, quindi, realmente comunitario e sostenibile, in cui gli effetti negativi del rischio d’impresa non vengono scaricati sulla comunità, in termini di licenziamenti o di ammortizzatori sociali, ma prevalentemente assorbiti attraverso la mutualità e la solidarietà interna a sostegno dell’impresa e dei suoi investimenti. Un’innovazione sociale che ha robuste radici nel passato ed un futuro scritto ogni giorno dal lavoro di ciascun socio-lavoratore.