Un settore in crescita soprattutto per le esportazioni
Si chiama settore biomedicale e viene subito alla mente l‘e-health, l’innovazione in sanità, la medicina digitale. L’obiettivo della medicina del XXI secolo sembra quello farci vivere più a lungo, ma anche in buone condizioni, e secondo le statistiche, il settore industriale connesso al biomedicale in Italia risente meno la crisi, con le sue 3.000 imprese, i suoi 107.000 addetti e circa 7 miliari di fatturato nel 2011. È però un mercato proiettato soprattutto all’esportazione.
Secondo l’ultimo rilevamento Istat su salute e Italia, dal 2005 al 2013 la percentuale di italiani con più di 3 malattie croniche è aumentata di un punto percentuale. Tra gli over 65enni il 41% soffre di multicronicità.
L‘OCSE prevede inoltre nel 2030 una persona su tre sarà over 60. Più la popolazione invecchia più necessita non solo di farmaci, ma anche di monitoraggio, di protesi, di qualità della vita accessibile quindi di domotica, facilità, usabilità. Un’intera struttura di servizi alla persona, che per funzionare ha bisogno di strumenti sempre nuovi.
Secondo quello che emerge da un recente report di Assobiomedica sul mercato dei dispositivi medici italiani, a fare la differenza è l’esportazione. Quasi l’80% di ciò che produciamo in Italia viene esportato. Al contrario, l’80% di quello che viene commercializzato in Italia non è italiano. Il mercato dei dispositivi biomedici nel 2011 (l’anno della piena crisi economica) rilevava 3.037 imprese operanti nel settore e 1.118 imprese di produzione per circa 7 miliardi di euro di fatturato.
Un mercato disomogeneo in Italia
Un elemento caratteristico di questo mercato in Italia è infatti la forte disomogeneità dal punto di vista geografico: il 70% delle 3.037 aziende rilevate da Istat nel 2011 si concentrava in sole cinque regioni: Lombardia, Emilia-Romagna, Lazio, Veneto e Toscana. Cinque regioni che producono l’85% del fatturato totale del settore.
Ma cosa si intende con il vocabolo “biomedicale”? Al grande gruppo dei dispositivi medici appartengono sette settori: quello delle attrezzature tecniche, il biomedicale, il biomedicale strumentale, le imprese che operano nel “borderline”, la diagnostica in vitro, l’elettromedicale diagnostico e il comparto servizi e software. Sul piano tecnologico e dell’innovazione digitale, i dispositivi medici in realtà sono anche quelli che si trovano negli studi dentistici o in sala parto ma il settore continua a produrre innovazione. Sempre secondo Assobiomedica, il 66,8% delle start-up biomedicali nasce nel campo della ricerca pubblica. In particolare, secondo dati aggiornati ad aprile 2013, sarebbero 214 quelle operanti nel settore, concentrate al centro-nord.
Rispetto a 10 anni fa si innova però in settori diversi. Se nel periodo 2000-2006 il 50% delle nuove imprese riguardava il comparto cosiddetto “borderline” (quello delle imprese che non esercitano azioni farmacologiche) oggi il 50% delle start-up investe nel biomedicale, cioè nella produzione e distribuzione di vari dispositivi medici, impiantabili e dei cosiddetti “disposables”. Un’altra frontiera è quella della la robotica, come i progetti di robot pensati appositamente per aiutare gli anziani o le persone con disabilità nella loro vita quotidiana. Una dimensione che in Italia vede protagoniste realtà di spicco come l’Istituto Italiano di Tecnologia di Genova e la Scuola Sant’Anna di Pisa, il cui Istituto di biorobotica è coinvolto nel Settimo Programma Quadro della Comunità Europea col progetto Robot-Era, la cui sperimentazione prevede la realizzazione di tre sistemi robotici avanzati in grado di interagire con gli anziani entro il 2015.