Una inchiesta tra i giovani sull’accettazione della violenza sui Social
L’hate speech sui Social media, o la violenza sui social, per il 44% dei ragazzi non è un problema: lo dice un’indagine di Skuola.net. I social sono ormai da tempo diventati un palcoscenico dove niente va nascosto. Tutti si sentono in diritto di dire la loro su tutto, in virtù di principi quali la libertà di informazione e la voglia di conoscenza. E i ragazzi sono d’accordo: il 56% di chi è a favore delle socializzazione della violenza ritiene che l’informazione è libera e che non può essere censurata. Addirittura, un altro 37% difende la sua posizione affermando che sono questi tipi di contenuti che aiutano a rendersi conto di cosa è capace l’essere umano. Non è della stessa opinione il 56% del campione complessivo che ritiene invece profondamente sbagliato ritrovarsi contenuti di questo tipo sulla propria bacheca. Tra questi, più di 1 su 2 li crede solo un modo per spettacolarizzare la violenza, per portare alla luce qualcosa che dovrebbe rimanere nell’ombra. Il 22%, invece, pensa che la continua socializzazione della violenza o, peggio, della morte, possa urtare la sensibilità di molti mentre il 12% la ritiene diseducativa per il pubblico più giovane. Eppure 1 su 2 si è fermato almeno una volta a guardare qualcuno subire violenza sui social, se non addirittura esaurire i suoi ultimi minuti di vita. E tra questi il 44% ha poi condiviso il contenuto con tutti i suoi contatti.
Alcuni dati su Facebook
All’inizio di maggio 2013 Facebook ha superato un miliardo di utenti registrati: i quali, tutti insieme, pubblicano circa due miliardi e mezzo di messaggi al giorno; e circa l’ottanta per cento di questi utenti non sono americani. Su Twitter gli utenti attivi sono circa 200 milioni e la media di tweet in un giorno è di 400 milioni. Su YouTube vengono caricati filmati a una media di 48 ore di nuovi contenuti ogni minuto. Per i social network e i grandi gruppi del web è evidentemente impossibile valutare ogni singolo contenuto caricato dagli utenti, ed è anche tecnicamente difficile sviluppare sistemi automatici efficienti di blocco preventivo dei contenuti offensivi o violenti.
Cos’è lo hate speech
Lo hate speech – espressione spesso tradotta in italiano con la formula “incitamento all’odio” – è una categoria elaborata negli anni dalla giurisprudenza americana per indicare un genere di parole e discorsi che non hanno altra funzione a parte quella di esprimere odio e intolleranza verso una persona o un gruppo, e che rischiano di provocare reazioni violente contro quel gruppo o da parte di quel gruppo. Nel linguaggio ordinario indica più ampiamente un genere di offesa fondata su una qualsiasi discriminazione (razziale, etnica, religiosa, di genere o di orientamento sessuale) ai danni di un gruppo. La condanna dello hate speech – sia sul piano giuridico che nelle conversazioni al bar – sta in un equilibrio elastico ma spesso problematico con la libertà di parola, principio tutelato dal Primo emendamento della Costituzione degli Stati Uniti (e fondante, con le sue regole, di ogni democrazia). Lo hate speech è un tema che alimenta un dibattito molto attuale e ancora più controverso nel caso della libertà di espressione su internet, dove non esistono specifiche normative internazionali condivise. Le grandi aziende come Google e Facebook affidano la compilazione delle norme di utilizzo dei servizi a un gruppo di lavoro specifico, che chiamano scherzosamente i Deciders, “quelli che decidono” (dal nomignolo dato al direttore del settore legale di Twitter, Nicole Wong, quando lavorava per Google). YouTube – che fu acquistata da Google nel 2006 – vieta esplicitamente lo hate speech, inteso secondo la definizione generale di linguaggio offensivo di tipo discriminatorio. Facebook allarga un po’ le maglie: lo vieta ma aggiunge che sono ammessi messaggi con «chiari fini umoristici o satirici», che in altri casi potrebbero rappresentare una minaccia e che molti potrebbero comunque ritenere «di cattivo gusto». Twitter è il più “aperto”: non vieta esplicitamente lo hate speech e neppure lo cita, eccetto che in una nota sugli annunci pubblicitari (in cui peraltro specifica che la campagne politiche contro un candidato «generalmente non sono considerate hate speech»).