Aspetti psicofisici e psicologici dei caregivers
Il termine anglosassone “caregiver”, è entrato ormai stabilmente nell’uso comune; indica “colui che si prende cura” e si riferisce naturalmente a tutti i familiari che assistono un loro congiunto ammalato e/o disabile.
Vi sono diverse ricerche in merito a questo argomento, interessanti per comprendere peculiarità e problematiche sia a livello personale che sociale.
Nel 2009 la ricercatrice Elizabeth Blackburn ha vinto il Premio Nobel per la Medicina con uno studio che ha scientificamente dimostrato che lo stress al quale sono sottoposti i Caregiver Familiari riduce le loro aspettative di vita dai 9 ai 17 anni rispetto al resto della popolazione. Tutto questo ha portato a richieste istituzionali, a lotte sociali che ancora oggi sono in corso e che si muovono in pratica su due assunti: l’impegno lavorativo del caregiver è esteso e sommato quotidianamente al lavoro di cura svolto per il proprio familiare; il caregiver è non molto raramente costretto ad abbandonare il lavoro per garantire quel sostegno assistenziale indispensabile alla sopravvivenza del congiunto, perché ignorato dai servizi che dovrebbero invece supportarlo o perché con sostegno domiciliare ai minimi livelli.
Occupiamoci ora dell’aspetto psicofisico di questa posizione. Il “caregiving“, ossia il prestare cure, è un’attività sì lodevole, ma spesso inevitabile, difficile e destabilizzante per colui che si ritrova in questo ruolo. Non si può fare un discorso univoco su un tema talmente complesso, poiché in effetti ci sono molte diverse forme di cure che vengono prestate. Macroscopicamente potremmo distinguere un caregiving professionale (dove chi presta cure è personale specializzato e abilitato) e un caregiving essenziale e sotterraneo che è quello familiare (in cui il caregiver sta accanto, supporta e permette la quotidianità di un proprio caro ammalato), e di cui in questo contesto stiamo parlando. I caregiver familiari spesso sono posti in secondo piano rispetto all’accudito, facilmente restano al di fuori dell’attenzione, anche se la loro attività è fondamentale. Si tratta di persone non di rado stanche, frustrate, ma coraggiose e tenaci, intenzionate a rendere la vita dei propri amati la più dignitosa possibile; le loro condizioni psicologiche però non vengono considerate abbastanza, prima di tutto da loro stessi (che non hanno il tempo, le energie e il denaro per curare sé). Infatti se ormai è assodato che “fare del bene” e mostrarsi generosi verso un nostro simile può farci sentire meglio, altro discorso è quello in cui la responsabilità di un altro essere umano è pienamente nelle nostre mani. Ovviamente questi gesti sono compiuti ogni giorno con sentimenti di devozione, manifesto di totale amore. Ma chi pensa a loro?
Vi sono molti studi e statistiche statunitensi sull’accudimento, ad esempio il “Caregiving Appraisal Scale” di M. Powell Lawton, Miriam Moss, Christine Hoffman e Margaret Perkinson (2000), che sonda i sentimenti e il vissuto dei care givers. E ciò che emerge da queste diverse raccolte di informazioni è la medesima situazione: il caregiver esperisce rabbia, stanchezza, senso di colpa (per il timore di non essere adeguato al compito), o percezione di una propria supposta e percepita “inutilità”.
Inoltre secondo una ricerca del 2005 della Center on Aging Society di Washington:
- il 16% dei caregiver si sente esausto;
- il 26% avverte come imponente il peso emotivo del loro compito;
- il 13% vive una profonda frustrazione vedendo l’assenza di miglioramento del proprio caro;
- il 22% arriva a fine giornata spaventato dal timore di non essere in grado di saper fronteggiare le responsabilità del ruolo, spaventato dal futuro che lo attende, dalla propria impotenza.
In maniera molto semplice e diretta la tensione del caregiver è facilmente manifestabile anche sul piano fisico (già provato dalle incombenze pratiche) ed è quindi più facile trovare in questi soggetti problemi gastrici, mal di testa, dolori dovuti magari anche alle manovre pesanti che attuano, e tutta una serie di disfunzioni immunitarie e problematiche che spesso derivano anche dal non avere tempo e risorse per poter curare se stessi.
Dal punto di vista strettamente psicologico sono i sintomi depressivi e i problemi d’ansia il vissuto più diffuso nel caregiving, due fattori che comunque dipendono da alcune variaibli:
- l’età (un giovane è più in grado di gestire e maneggiare la cura quotidiana);
- lo stato socio-economico (chi ha più denaro può meglio organizzarsi e talvolta delegare alcune incombenze);
- la capacità di reperire informazioni del caregiver (più si può capire e comprendere più si ha la sensazione di aver un minimo di controllo sulla situazione).
Naturalmente questo universo è punteggiato da una moltitudine di peculiarità, da singole patologie, da diverse esigenze, spesso non sovrapponibili.
Non va comunque dimenticato che in queste esistenze messe a dura prova esistano zone di luce e sentimenti bellissimi, come il vivere un’esperienza della grandezza dei legami umani e proprio per questo è doveroso pensare ad un approccio volto a rivalutare stili cognitivi (oltre a un supporto che può essere psicologico e/o psichiatrico) come miglioramento della loro qualità di vita.