di Irene sarti
Bellezza e capacità sono termini e contenuti che difficilmente si associano alla disabilità. Il diverso non è quasi mai bello, tutt’al più è strano, è curioso e, comunque, prevalentemente non-abile, incapace, lento. Il Laboratorio Teatrale Integrato “Piero Gabrielli “ di Roma, da più di venti anni, unisce e include persone con e senza disabilità attraverso il teatro. Nel corso degli anni, il teatro è diventato il luogo della messa in scena di questi aspetti (bellezza e capacità) altrove impensabili. Per fare queste scoperte dobbiamo avvicinarci, per necessità o per scelta, all’universo infinitamente grande della diversità, della vulnerabilità e del disagio. Cosa ci spinge ad avvicinarci a questo mondo quando non ne siamo direttamente coinvolti? Spesso questo accade attraverso un parente, un conoscente, un vicino di casa, un compagno di scuola dei figli. Ci sono poi i contesti sportivi, artistici, performativi vari che, in tempi di integrazione, voluta o subita, ci aprono le porte dello spazio della disabilità. Di certo bisogna entrarci in punta di piedi, anche quando ancora non sappiamo che avremo tutto da guadagnarci e che ne usciremo migliori. La strada sarebbe spianata perché è spesso facile avvicinare le persone con disabilità. Soprattutto chi ha un problema cognitivo è facilmente accogliente, disponibile, e in più non giudica, non chiede, non mette a disagio. Rischiamo così di farci prendere dal senso di superiorità che la fragilità, la vulnerabilità spesso inducono, lasciandoci invece sfuggire la forza e la profondità del messaggio che danno. Cosa possiamo sinceramente fare per capire di più e meglio ? Si tratta di un lavoro faticoso e bisogna volerlo fare. Non è così importante Il motivo che ci spinge, importante è il modo: che sia semplice, onesto, rispettoso e puro.
Capovolgere gli stereotipi
Sarà più facile poi capovolgere gli stereotipi, sovvertire i modelli, rovesciare le prospettive, avvicinarsi alla disabilità con canoni inconsueti, cogliere la profondità estetica di un corpo imperfetto, di atteggiamenti, posture, modalità di relazione e di approccio inconsueti. Semplicemente guardare. Strada non facile ma di sicuro approdo più che alla comprensione, spesso inutile e artificiosa, alla illuminazione sul linguaggio che parlano i corpi imperfetti. Alcuni consapevoli della imperfezione, altri palcoscenico innocente, in grado, se rispettato, di parlare il linguaggio potente e universale dell’emozione. Il percorso è lungo e insidioso, lastricato di stereotipi radicati, inconsapevoli, duri a morire. Solo abbandonando la percezione comune del corpo, del linguaggio e della parola, si approda al “corpo poetico” che va oltre la bellezza canonica. Solo così le differenze di chi ha un problema fisico, psichico o sensoriale possono diventare da un lato strumenti di ricerca artistica (padronanza, consapevolezza o percezione, prima sconosciuta, del proprio corpo ) e dall’altro strumenti pedagogici per chi guarda e partecipa ( pubblico, famiglie, operatori sociali e teatrali) verso l’accettazione e il gusto di tempi diversi, più lenti, più raggiungibili, meno competitivi e ansiogeni per tutti. SLOWLY per l’appunto. Ora cosa è accaduto? Una collega neuropsichiatra infantile e fotografa mi ha invitato a partecipare a un corso di fotografia sociale tenuto da Fabio Moscatelli, un fotografo con la marcia in più dell’attenzione alle fragilità, alle differenze, al disagio personale e sociale. Lui ci chiede di fare un reportage su un tema vicino a questi aspetti e, con Elvira, che già conosce il teatro Gabrielli per averlo fotografato, abbiamo deciso di raccontare una storia di disabilità, bellezza e capacità perché è quello a cui, negli anni, tanti, abbiamo assistito: quasi una metamorfosi. Man mano che il corpo, spesso nella disabilità oggetto solo di assistenza e cura, diventa un luogo di piacere, per le sensazioni che comincia a provare, e una tela da dipingere con colori accesi, c’è la sorpresa di emozioni inattese e la scoperta di bellezze sconosciute. Via scarpe basse e nere, vestiti informi, facce grigie, benvenuti tacchi, calze velate, capelli curati, trucco. Ma come raccontare tutto questo attraverso la fotografia? Come rappresentare con la fotografia (strumento potente e universale, fissatore inesorabile di bellezza e bruttezza, di poesia e orrore, di stupore o disagio) qualcosa di così impalpabile come il cambiamento interiore che illumina il fuori? Quando accade? Quando “scatta”? Come rendere con le immagini quel confine profondo e impercettibile tra regolare ed eccessivo? E soprattutto come metterci d’accordo su cosa è fuori dalla media e cosa dentro?