Affido e disabilità
Irene Sarti
Primavera del 1978, il giorno del rapimento Moro. Io ero incinta di Caterina. Nei locali di piazza del Comune, varie persone, tra cui Giovanna ed io. Si spostavano mobili, cartelle, giocattoli. Era la nuova sede, anzi la prima sede, del servizio di riabilitazione territoriale, l’UTR. La terapia dei disabili (si diceva handicappati) usciva dagli istituti religiosi dove fino ad allora era stata esclusivamente gestita e dove noi tutti lavoravamo. Le madri avrebbero portato i bambini al servizio pubblico e, quando non potevano, saremmo andati noi a casa, nei paesi più sperduti e con ogni tempo. Non la voglio fare eroica, ma era davvero una rivoluzione di cui a malapena noi ci rendevamo conto se non per quella euforia che ci invadeva, per esempio, quando facevamo le riunioni, sempre con le madri, paese per paese, a spiegare cosa stava succedendo di nuovo. Di nuovo c’era pure che la scuola si apriva alla disabilità, ancora senza una struttura precisa, con molte riserve e un po’ di compassione ma era pur sempre qualcosa di grande. Questo per fare un po’ di storia con quei ricordi che ho, pochi rispetto alla miriade di cose che facevamo. L’impressione era che tutto quello che fino ad allora era rimasto chiuso usciva fuori, dal fondo a galla e non si poteva più fare finta di non vederlo; ti piacesse o no, ci dovevi fare i conti. Lo vedevi a scuola, vicino a tuo figlio, in autobus, al mercato. A quel punto tutto era più chiaro, anche il disagio delle famiglie, e si dovevano cercare, se non soluzioni, proposte. La risposta all’impossibilità, per vari motivi, di alcune famiglie di occuparsi dei figli soprattutto se problematici, è venuta con l’istituzione dell’affido. Nella mia esperienza ho visto famiglie affidatarie di tutti i tipi; per necessità, per carità, per espiazione, per amore, per generosità, per solitudine. Il problema era entrare nell’ordine di idee che un figlio, anche il tuo, non è una proprietà anche se profondamente ti appartiene, anche il non tuo. L’altro era il distacco, la perdita, la separazione. Se poi arrivava tra capo e collo un bambino con qualche imperfezione, un “danno” magari taciuto o non spiegato fino in fondo, qualcuno lo rispediva al mittente come un pacco fallato, altri lo tenevano per esaltare il sacrificio. Gli ultimi, pochi, facevano quello che si fa quando una disabilità compare nella tua famiglia: ti disperi, piangi, poi ti rimbocchi le maniche e fai quello che c’è da fare per far sì che la qualità della vita di tutta la famiglia sia la migliore possibile e non che la disabilità diventi il centro oscuro delle vite di tutti. Ma il problema in questi casi è un altro: già è difficile per molte madri pensare adulti e autonomi i propri figli sani per cui, quando c’è una disabilità, si rischia di pensarli sempre bambini anche quando sono uomini e donne fatti. E qui ritorna in ballo il distacco: come ci si può separare da un bambino? Si può lasciarlo solo? O in mano ad altri? Eppure ho visto il desiderio di una qualsiasi autonomia possibile anche negli occhi dei più gravi e apparentemente più dipendenti. Intanto il tempo passa, i legami diventano più forti e quasi non ci si accorge che stiamo arrivando al capolinea. E se noi ce ne andiamo, chi userà lo stesso amore con la nostra creatura? Le famiglie si organizzano e pensano al “dopo di noi”, ma la strada non è la stessa per le famiglie affidatarie. La legge si mette di traverso dopo il compimento di quella maggiore età che non corrisponde a una maggiore capacità di stare da soli. Bisogna inventare e costruire strategie per situazioni tanto impreviste quanto prevedibili oltre a fare i conti con le stesse identiche difficoltà a separarsi che affrontano tutte le famiglie con lo stesso problema. Cosa si può fare? Cercare di non trovarsi da soli a decidere e ad affrontare il distacco, farsi aiutare, agire per gradi, piccoli passi e pensare che la separazione non è mai definitiva e che se il percorso è stato graduale, quando dovranno affrontare “quella” separazione, i ragazzi imperfetti saranno i più forti e i più pronti.