Il giornale Vita analizza l’articolo 55 del nuovo Codice del Terzo settore che ridisegna i rapporti fra ETS e Pubblica amministrazione, dando seguito per la prima volta al principio di sussidiarietà espresso in Costituzione. Riportiamo l’articolo:
«Nel Codice del Terzo settore c’è una “parola negletta”: “coprogrammazione”, che è qualcosa di più alto della coprogettazione per la gestione di un servizio. Le Organizzazioni di Terzo settore non devono limitarsi a rappresentare i propri bisogni e le proprie istanze alla Pubblica Amministrazione, ma saper immaginare il futuro di un territorio, sfidando la politica con ipotesi programmatorie»: questo lo spunto che Felice Scalvini, presidente di Assifero, ha lanciato di recente durante il XVI Workshop sull’impresa sociale di Iris Network, dedicato al nesso tra conoscenza e innovazione sociale. Attorno a quelle parole (coprogrammazione/coprogettazione) e più in generale all’articolo del nuovo Codice del Terzo Settore che le contiene (il 55) c’è in atto un forte dibattito (vedi anche “Se Anac e Consiglio di Stato non sanno cos’è la coprogettazione”, di Gianfranco Marocchi): abbiamo cercato Scalvini per approfondire.
Può presentare in sintesi i contenuti e la rilevanza dell’articolo 55 anche per chi non ha seguito da vicino la riforma del Terzo settore?
L’articolo 55 è una delle disposizioni più importanti del Codice, perché definisce il quadro generale delle relazioni tra Enti di Terzo settore e la Pubblica Amministrazione. Per la prima volta – con l’articolo 55, ma complessivamente col Codice – una legge ordinaria procede nell’attuazione del IV comma dell’articolo 118 della Costituzione italiana, dove nel 2001 venne affermato il principio di sussidiarietà, sancendo che compito delle Amministrazioni Pubbliche è favorire l’autonoma iniziativa dei cittadini, singoli e associati, per lo svolgimento di attività di interesse generale, sulla base del principio della sussidiarietà.
Questa è la cornice. La modifica costituzionale del 2001 ha avuto bisogno di tempo per maturare e il Codice del Terzo settore è di fatto la prima legge attuativa del principio di sussidiarietà e lo è in particolare con l’articolo 55, che richiama proprio il 118. È interessante anche il lessico usato dal legislatore: l’articolo 55 non si intitola “dei rapporti con gli enti di Terzo settore” bensì “del coinvolgimento degli enti di Terzo settore”, è un’assonanza diretta con il “promuovere l’autonoma iniziativa” dell’articolo 118. Tutto è orientato in chiave attiva e promozionale.
L’articolo 55 dà agli enti di Terzo settore e alle Pubbliche amministrazioni gli strumenti per realizzare la totale, reciproca, pari dignità sancita dalla Costituzione nell’esercizio di attività di interesse generale. Attività che – lo voglio sottolineare – sono tutte quelle dell’articolo 5 del Codice, cioè non poche nè marginali.
Quindi si tratta di un articolo rivoluzionario?
Sì. Ed è importante che il Terzo settore ne prenda coscienza, anche perché c’è una tendenza nel mondo del sociale a leggere l’art. 55 come attuativo della legge 328. Nulla di più sbagliato. Il 117 rappresenta il totale superamento della 328 che deve essere riletta, come legge settoriale, alla luce della Costituzione e del Codice, leggi per loro natura di carattere generale.
Il Codice del Terzo settore è di fatto la prima legge attuativa del principio di sussidiarietà e lo è in particolare con l’articolo 55, che dà agli enti di Terzo settore e alle Pubbliche amministrazioni gli strumenti per realizzare la totale, reciproca, pari dignità sancita dalla Costituzione nell’esercizio di attività di interesse generale.
Felice Scalvini
In che modo avremmo il superamento della 328?
Un punto è che prima di parlare di coprogettazione si deve ora innanzitutto parlare di coprogrammazione, che significa partecipare alla costruzione delle politiche. Ora, per mettersi in grado di partecipare alla costruzione di politiche non basta immaginare come si deve sviluppare il proprio servizio o la propria attività, ma è necessario capire il quadro generale di un territorio e/o di un settore, le compatibilità, le risorse disponibili (non solo quelle pubbliche ma anche private delle famiglie e degli altri soggetti organizzati), quali gli elementi trasformativi ed evolutivi o quelli di mantenimento, quali le tecnologie in atto e quelle sviluppabili… Occorre avere molte informazioni, saperle organizzare e porle alla base di visioni e scelte condivise.
Questa operazione di sviluppo di consapevolezza e conoscenza – il Terzo settore lo dovrebbe capire – deve essere fatta necessariamente insieme, da una pluralità di organizzazioni, che in questo modo potranno poi sedersi al tavolo con la PA e sollecitarla ad avere quella stessa visione complessiva.
Sono stato assessore a Brescia e lì abbiamo anticipato per cinque anni questa logica. Per impostare i nuovi Piani di Zona ci siamo seduti con le organizzazioni e prima di tutto abbiamo cercato di capire, tutti insieme, quanti erano i produttori di welfare: è emerso che erano 240 soggetti. Bisogna che questo straordinario insieme di soggetti impari a diventare protagonista del futuro comune, proprio e della città. Sono una enorme ricchezza, che può rappresentare una decisiva intelligenza collettiva, ma va superata la frammentazione che oggi appare evidente. Figlia peraltro anche di politiche pubbliche hanno sempre spinto questi soggetti a competere fra loro e portato il Terzo Settore a frantumarsi. Oggi però le prescrizioni per le Pubbliche Amministrazione dell’articolo 118 della Costituzione e del 55 del Codice sono molto chiare e impongono un netto ribaltamento dell’approccio, orientando verso meccanismi cooperativi.
Come si fa a co-programmare?
Innanzitutto studiando, raccogliendo e organizzando informazioni provenienti dall’interno, ma molto anche dall’esterno delle organizzazioni coinvolte, costruendo alleanze con i centri di ricerca. Non vi è capacità programmatoria se non vi è adeguato livello di conoscenza, analisi e valutazione delle problematiche, che, come appunto si diceva a Riva, non deve essere solo frutto della esperienza delle organizzazioni stesse, ma di una conoscenza complessiva di dati, informazioni ed esperienze molto ampi. Per questo i centri studi sono centrali e decisivi. A Brescia ad esempio Socialis ha messo insieme i due Atenei della città ed il Terzo settore per cercare di produrre la conoscenza necessaria, al mondo del sociale e non solo, per capire quali politiche e quali interventi programmare. Per questo si è rivelato un partner preziosissimo per il Comune nello sviluppare insieme al Terzo Settore le politiche innovative che dicevo.
Oggi le prescrizioni per le Pubbliche Amministrazione dell’articolo 118 della Costituzione e del 55 del Codice sono molto chiare e impongono un netto ribaltamento dell’approccio competitivo dei bandi, orientando verso meccanismi cooperativi.
Felice Scalvini
La cornice è molto chiara. Perché allora Anac e Consiglio di Stato sembrano contestare la coprogrammazione e la coprogettazione previste dall’articolo 55?
Con logica impeccabile e rigorosa, l’articolo 55 dice che, sviluppata in primis l’attività di co-programmazione poi, a valle, si tratta di attuare l’attività di coprogettazione, che altro non è se non la messa a fuoco delle concrete modalità operative per intervenire nelle diverse specifiche aree di bisogno: bambini, anziani, persone con disabilità… La coprogettazione riguarda l’attività di dettaglio, che riesci a fare bene solo se a monte hai costruito attraverso il dialogo una visione generale, entro cui sei in grado fare scelte di priorità e concretizzarle appunto in progetti.
Questo tipo di coprogettazione – questo è il punto di discussione con Anac – può sfociare in due modalità di rapporto: uno è l’affidamento, che significa che il servizio pubblico è di titolarità della Pubblica amministrazione che ha bisogno di un soggetto di Terzo settore che dia manodopora e organizzazione del servizio. In questo caso, quando c’è affidamento, la normativa degli appalti è sacrosanta, non si scappa.
Diverso è quanto la coprogrammazione e la coprogettazione sfociano in processi di accreditamento: lì non c’entra niente il codice degli appalti. Non sto fantasticando, ma parlando di un approccio che in altri settori è da sempre consolidato: forme di accreditamento, per fare l’esempio più evidente, sono tipiche della sanità e del sociosanitario. È stupefacente come non ci si renda conto che il sociale può essere in modo trasparente e legittimo organizzato in modo simile alla sanità, dove nessuno propone di fare appalti e gare tra gli ospedali privati o le RSA per anziani o le RSD per i disabili, e neanche per le innumerevoli prestazioni diurne.
Paradossalmente se vigesse ovunque questa sacralità del codice degli appalti, ogni tre anni bisognerebbe mettere in gara le prestazioni fra i medici di base. Mi rendo conto di dire cose che appaiono insensate, ma non vi sembra ancor più paradossale che un cittadino possa – giustamente – avere il medico di base a vita mentre l’assistente domiciliare che ti entra in casa, che sta con te vari giorni della settimana, con cui istauri una relazione fondamentale di sostegno possa cambiare ad ogni spirar del vento dell’appalto? Se ci si pensa bene si tratta di una situazione grottesca. Il problema è che a pagare sono le persone più deboli.
Vorrei ci si rendesse conto che la battaglia per le forme di accreditamento non è una ipotesi fantasiosa e tanto meno portata avanti per obliqui interessi, ma semplicemente mira a trasferire nel sociale quel che avviene nel sanitario e in altri settori, come peraltro stabilisce la normativa europea che sempre accomuna servizi sanitari e sociali.
Il principio fondamentale della buona amministrazione non è la concorrenza, ma la trasparenza. Anac e il Consiglio di Stato con un approccio direi irruente e inspiegabilmente aggressivo stanno cercando di alzare barriere rispetto a questa visione. Spero vi sia una discussione aperta con loro, perché evidentemente noi non siamo contrari alla legalità, anzi, crediamo che la corruzione si combatta proprio valorizzando in modo trasparente i soggetti protagonisti.
La battaglia per le forme di accreditamento non è una ipotesi fantasiosa e tanto meno portata avanti per obliqui interessi, ma semplicemente mira a trasferire nel sociale quel che avviene nel sanitario e in altri settori, come peraltro stabilisce la normativa europea che sempre accomuna servizi sanitari e sociali.
Felice Scalvini
Come?
Lavorando su regolamenti e procedure, come stanno facendo varie amministrazioni. Procedure che chiamino a raccolta tutti i soggetti interessati e rendano evidente l’apporto di ciascuno. A questo bisogna applicarsi, e mi si conceda di citare ancora Brescia, dove, terminando il mio mandato, ho lasciato in gestazione il “Regolamento comunale dei rapporti col Terzo settore”, così da dare piena correttezza e trasparenza alle procedure di co-programmazione, co-progettazione, accreditamento. C’è però un problema.
Qual è?
L’utilizzo sfrenato del sistema degli appalti nel sociale ha avuto degli effetti, soprattutto nel movimento cooperativo. Trent’anni di quel sistema ha prodotto vincitori e vinti e quando si rimescolano le carte, chi ha vinto le partite precedenti cerca di fare resistenza.
Chi sono i vincitori delle partite precedenti che oggi oppongono resistenza ?
I vincitori della stagione passata sono quelle realtà che si sono organizzate per fornire, in regime di appalto, manodopera alla PA e non per gestire autonomamente un servizio sostenuto dalla PA, ma prestato direttamente a favore dei cittadini. Cooperative decorose, non voglio demonizzarle, ma che vivono di appalti e che essendo a tutti gli effetti Enti di Terzo settore daranno battaglia resisteranno molto al cambiamento che io ipotizzo. Si tratta di realtà spesso poderose, con centinaia, migliaia di operatori, con decine di milioni di euro di fatturato, che si sono attrezzate per fare questo: partecipare a gare d’appalto, spesso con l’ufficio contratti ed il legale pronti a fare ricorso ogni volta che si perde una gara. L’accreditamento porta invece naturalmente all’emersione di soggetti diversi, normalmente più specializzati e sicuramente più orientati a tessere dentro e intorno ai servizi pratiche comunitarie e, come oggi si dice, generative. Insomma, è un tema su cui all’interno del Terzo settore ci sono posizioni e interessi diversi. Sarà necessario un confronto approfondito.
Trent’anni di appalti nel sociale hanno prodotto vincitori e vinti e quando si rimescolano le carte, chi ha vinto le partite precedenti cerca di fare resistenza. L’accreditamento porta naturalmente all’emersione di soggetti diversi, più specializzati e più orientati a tessere dentro e intorno ai servizi pratiche comunitarie e generative.
Felice Scalvini
Senta, cos’è il “club degli amici dell’articolo 55”?
Per alimentare una riflessione ad un tempo teorica e pratica sulle questioni di cui fin qui ho provato a dare qualche sunto, con Gregorio Arena abbiamo creato questo gruppo di “amici dell’articolo 55”. È evidente che ci si rifà al filone di pensiero giuridico dell’Amministrazione condivisa, di cui Gregorio è stato antesignano e paladino e che già ha portato, come risultato, agli oltre 150 regolamenti per l’amministrazione condivisa dei beni comuni. Torna anche qui la consapevolezza che ci vuole una base di riflessione scientifica e che le battaglie sociali si fanno sviluppando conoscenza, mettendo insieme studiosi e operatori. Noi, per era ci siamo trovati un paio di volte: ci sono costituzionalisti, amministrativisti, persone della PA, operatori di prima linea, c’è il Forum del Terzo Settore… Siamo una quindicina e stiamo cercando di elaborare una linea articolata di pensiero (un numero specifico di Welfare oggi ha già raccolto alcuni contributi), produzione scientifica e, in prospettiva, comunicazione. Siamo impegnati a dare gambe alla grande innovazione introdotta dall’articolo 55, che, lo ripeto, ha dato finalmente gambe all’art 118 della Costituzione.
Gianfranco Marocchi in un recente articolo su Vita.it riferiva di come negli ultimi mesi molte amministrazioni avessero avviato iniziative di amministrazione collaborativa e di come ora, dopo i pareri del Consiglio di Stato e dell’ANAC sulla coprogettazione, sono intimoriti e titubanti. Lei, da amministratore, che dice?
A Brescia cinque anni di impostazione molto netta in questa direzione non hanno prodotto un ricorso, una contestazione, un profilo di illegittimità. Cosa dico? Andate avanti. Adesso nella Pubblica amministrazione c’è questa sorta di terrorismo, ma il tema è quello che dicevo prima: perché quello che è normale nella sanità non lo è nel sociale? Certo anche in sanità abbiamo visto gente finire in galera, ma nessuno dice che la soluzione è fare gare di appalto in sanità. E per converso i frequenti interventi della magistratura evidenziano quanta corruzione vi sia negli appalti. Se incominciassimo a chiederci se, in alcuni settori, non siano proprio gli appalti a favorirla?