La manovra si prende 118 milioni dalle organizzazioni assistenziali no-profit
Né Stato, né mercato. Si chiama Terzo settore ed è quel’insieme di realtà che non esistono per fare profitto e non sono riconducibili alla pubblica amministrazione Sono le associazioni di volontariato, le cooperative sociali, e le società di mutuo soccorso, ma anche le associazioni sportive dilettantistiche, quelle di consumatori e le organizzazioni non governative (Ong). Danno lavoro a circa 800 mila persone in Italia, secondo i dati riportati dal Forum Terzo Settore e relativi al 2016, divise in più di 343 mila realtà. Non solo: all’ultimo censimento del no-profit, crescevano più delle imprese e dei servizi. Dal 1973 godevano di una tassazione agevolata – 12% invece di 24% – che ha permesso loro di fare investimenti come acquistare ambulanze, strumenti per le emergenze e pulmini per disabili.
La manovra, però, prevede che il Terzo settore dovrà dare allo Stato 118 milioni di euro nel 2019 e 157 nel 2020 e nel 2021. Come è possibile?
Il testo approvato in Senato prevede che l’articolo 6 del decreto presidenziale 601 di 45 anni fa venga cancellato. E che, in sostanza, una associazione che assiste i disabili paghi le stesse tasse di una oreficeria di lusso o una multinazionale, come scrive Gian Antonio Stella su Vita.
Matteo Salvini ha difeso la misura dicendo che la fine del regime agevolato Ires per gli enti del terzo settore “è stata una scelta”. “Vedremo di aiutare chi effettivamente ha bisogno” ha affermato, sottolineando che nella manovra “ci sono tanti di quegli investimenti per i disabili, per la scuola, per l’università, per la ricerca, che sono assolutamente contento”.
Dove lavora il Terzo settore
Oltre il 50% delle istituzioni è attivo nelle regioni del Nord contro il 26,7% dell’Italia meridionale e insulare. Il numero di istituzioni no-profit ogni 10 mila abitanti è un indicatore che misura più chiaramente la presenza territoriale: se al Centro-Nord tale assume valori prossimi se non superiori a 60 (in particolare al Nord-est, dove raggiunge il livello di 68,2), nelle Isole e al Sud è pari rispettivamente a 48,1 e 42,2. Infine, i dipendenti sono ancora più concentrati delle istituzioni dal punto di vista territoriale, con oltre il 57% impiegato al Nord.
Per la portavoce del Forum, Claudia Fiaschi. l’emendamento approvato la notte del 23 dicembre è “particolarmente penalizzante, soprattutto in relazione al periodo transitorio in cui si attende la piena entrata in vigore della Riforma del Terzo Settore” e si aggiunge a un’altra preoccupazione: quella per la fatturazione elettronica per i soggetti con proventi superiori a 65 mila euro. L’effetto che si potrebbe generare, avverte, è che “un ente che riceve una sponsorizzazione e che fino ad oggi aveva goduto del regime forfettario, non potrà più ricevere l’importo dell’Iva e sottoporlo al regime fiscale semplificato”. Insomma, un’altra tegola fiscale che associazioni e organizzazioni si aspettavano di dover affrontare non prima della riforma.
Sulla vicenda è intervenuto anche Enrico Mentana che su Open ha lanciato un appello a cancellare subito questa norma perché “tutti sappiamo che attorno a noi c’è una rete del terzo settore che supplisce all’inadeguatezza dello Stato ad aiutare chi ha bisogno: bambini, poveri, anziani, malati, senzatetto, tossicodipendenti”. Sempre Gian Antonio Stella fa un’altra considerazione, numeri alla mano. “Mediamente”, scrive su Vita “ognuno di quei 5,5 milioni di volontari regala a chi ne ha bisogno almeno tre ore alla settimana (almeno: in realtà sono sempre di più, senza contare le emergenze di un terremoto o un’alluvione) per un totale annuale di 858 milioni di ore di lavoro. A 10 euro l’ora, paga ridicola per tanti impagabili esempi di abnegazione, quel volontariato regala allo Stato oltre otto miliardi e mezzo di euro. Quasi settanta volte di più di quanto andrà a rosicchiare sull’Ires”.
Secondo Gabriele Sepio, coordinatore del tavolo tecnico-fiscale per la riforma del Terzo settore presso il Ministero del Lavoro, particolarmente penalizzati in tutto questo saranno gli enti ecclesiastici che, anche dopo la piena efficacia della riforma, avrebbero eccezionalmente mantenuto l’aliquota Ires ridotta del 50% per le attività diverse da quelle esercitate attraverso un ramo “Terzo settore”. Si pensi ad un ente religioso che svolge attività di formazione, o socio sanitaria: nell’ipotesi di imponibile pari a 400 mila euro, l’ente beneficerebbe per il 2018 dell’aliquota Ires dimezzata al 12%, pagando quindi 48 mila euro d’imposta. Con le modifiche introdotte dalla legge di bilancio, lo stesso ente pagherebbe a partire dal 2019 un’imposta raddoppiata, pari cioè a 96 mila euro. (fonte AGI)