25 aprile 2020, ai tempi della pandemia il giorno che commemora la liberazione dall’oppressione nazifascista assume significati metaforici e simbolici che invitano ad alcune riflessioni sul futuro
25 aprile 2020. Settantacinque anni fa, il Comitato Nazionale di Liberazione Alta Italia ordinava l’insurrezione generale nel nord del nostro Paese ancora sotto il giogo nazifascista. Il primo maggio, tutta l’italia settentrionale era libera. In queste settimane di pandemia e distanziamento sociale, in molti hanno usato metafore belliche per descrivere la lotta al corona virus.
Le analogie, certo, esistono – le decine di migliaia di morti, la “prigionia” negli ospedali e nelle case, l’abnegazione e gli atti di coraggio di tanti, la solidarietà e la voglia di condividere.
Una guerra è però cosa ben differente, come ci hanno ricordato in questi giorni le voci dei tanti, purtroppo sempre meno, anche a causa del contagio, che la guerra l’hanno vissuta veramente.
Molti dei quali combattendo e vedendo morire accanto a se i propri compagni.
Oggi viviamo questa giornata alla vigilia dell’allentamento del lockdown, interrogadoci su come sarà il dopo.
Per farlo, può essere utile guardarsi indietro. A come eravamo e a come non potremo più essere.
Non dobbiamo dimenticare, infatti, che questo giorno, festeggiato 75 volte (in realtà 74, visto che è stato istituito nel ’46 del secolo scorso, ma voglio metterci anche la felicità nelle strade nei giorni della cacciata degli oppressori e degli invasori), soprattutto negli ultimi anni.
Troppo spesso è stato infatti interpretato non come commemorazione di un passaggio storico, monito e sprone per il futuro per l’intera nostra comunità nazionale, ma anche, e da molti, come un’opportunità per costruirsi un “ponte” primaverile, mettendolo assieme al primo maggio. O, peggio, come pretesto per becere polemiche, revisioniste, pretestuose e divisive.
Il nostro Paese, devastato da un conflitto che ha causato la morte di centinaia di migliaia di persone, allora seppe risollevarsi e rinascere in pochi anni, creando le condizioni per quel miracolo economico che stupì il mondo intero.
Solo un anno dopo la liberazione dopo seppe scegliere tra monarchia e repubblica e, nel ’48, dopo 20 anni di violenze e tirannia, dotarsi di una costituzione democratica, basata sull’eguaglianza e la solidarietà, che mise da parte le divisioni che l’avevano afflitto nel passato.
Tutto questo fu possibile grazie ad una comunità coesa, che guardava al futuro, dandosi obbiettivi comuni e condivisi.
Ciò, ovviamente, non significa che le divisioni non esistessero, sono sempre esistite.
Ci sono stati omicidi e stragi dove, invece, avrebbe dovuto essere la dialettica politica costruttiva. Superati – ma non ragionati, gli anni di piombo rossi, neri e di Stato – soprattutto negli ultimi 30 anni c’è sempre stato qualcuno che vi soffiava sopra per alimentare il fuoco delle differenze e delle tensioni.
Ma la maggior parte degli italiani ha sempre dato un peso maggiore al bene comune, prescindendo da esse. Il risultato è che, oggi, uniti, siamo qui ad affrontare questa crisi.
Se la storia insegna, è da questo spirito e da questi valori che occorre ripartire.
Mio nonno, partigiano comunista, di quelli che, dai passi alpini, portava ebrei e perseguitati nella neutrale svizzera, mi raccontava che, in quei giorni concitati di liberazione dall’occupazione e dall’oppressione nazifascista, ad un posto di blocco a Firenze venne fermato un noto militante fascista, operaio nelle Officine Galileo, ove egli stesso aveva lavorato e che conosceva. Si era macchiato di efferate violenze. Riconosciuto, volevano giustiziarlo sul posto. Mio nonno si oppose, dicendo che “non solo bisogna guardare al dopo, ma oltre”. Lo lasciarono andare.
Mi ha sempre affascinato questo aneddoto. Perché l’ho sempre inteso come metafora di un piccolo gesto, anche se in un quotidiano d’emergenza, che può contribuire a cambiare il futuro, partendo dal passato e comprendendo le scelte urgenti da fare ora, nel presente.
Oggi, reclusi in casa, obbligati a tenere la distanza di sicurezza, i nostri volti nascosti da mascherine, a guardare con sospetto chi incrociamo per strada, probabilmente rimpiangiamo tutti cose semplici. Una passeggiata all’aria aperta, il calore di un abbraccio, il valore di un sorriso ed il chiacchierare del più e del meno.
Ci dicono che torneremo gradualmente alla normalità. Ci ammoniscono anche che, con la minaccia del contagio alle porte, silente e sottotraccia, niente sarà più come prima. Almeno fino a che non sarà trovata una cura e un vaccino.
Il problema, però, è che questo virus non è stato solo, a livello umano, sociale ed economico, una catastrofe globale, ma anche un chiaro segnale del fatto che, forse, se non certamente, siamo arrivati ad un bivio per l’intera specie umana. Nel giro di pochi mesi, infatti, il contagio si è propagato in tutto il mondo. Ad eccezione di qualche atollo del Pacifico ed isola dell’Atlantico. Ad una velocità sorprendente, grazie a quel fenomeno che chiamiamo globalizzazione.
In passato ci sono state altre pandemie. La Peste Nera del XIV secolo, che ci ha messo oltre quindici anni per arrivare in Europa dagli altopiani asiatici ed ha provocato, si stima, almeno un 20 milioni di vittime. Senza toccare, però terre allora non ancora esplorate, come il Continente Americano e l’Oceania.
Più di recente, la spagnola, tra il ’18 ed il ’20 del secolo scorso, ha ucciso almeno 50 milioni di persone in 2 anni, colpendo anche in isole remote del Pacifico dell’Artico.
Il motivo di questa differenza, in termini di morti e di velocità di contagio, è l’aumento della popolazione e della sua densità, con l’accelerazione dell’inurbamento, l’evoluzione dei mezzi di trasporto e dei collegamenti, con lo spostamento di grandi masse di persone da un punto all’altro del globo.
Complice, nel caso della spagnola, la fine della Grande Guerra ed il ritorno a casa di decine di milioni di soldati che, per almeno 3 anni, avevano vissuto ammassati, in condizioni igieniche estreme, nelle trincee.
Ora, le persone ammassate nelle trincee, che sono le metropoli, siamo noi, che ci spostiamo, (o ci spostavamo) in ogni angolo del globo con facilità moltiplicata dal punto di vista delle opportunità e dei costi, sia per lavoro che per svago.
Questo ci dovrebbe far riflettere, alla luce del Corona Virus e non solo, sul nostro modello di sviluppo, sull’aumento della popolazione, sulla crescita delle città e della densità della popolazione e sulla facilità dei trasporti e degli scambi.
Da questo punto di vista, c’è un’altro aspetto da considerare.
Nel suo “Spillover”, il giornalista scientifico statunitense David Quammen ha descritto il lavoro svolto in giro per il mondo da alcuni biologi e virologi per indagare i meccanismi delle cosiddette “zoonosi”, ovvero il passaggio di agenti patogeni dagli animali selvatici e domestici all’uomo.
Quello che il suo libro evidenzia, è che la sottrazione di spazio agli ambienti naturali, causata dall’inarrestabile espansione dei centri abitati e dalla deforestazione – praticata per ricavare terreno per le coltivazioni estensive e gli allevamenti intensivi necessari a sostenere la crescita della popolazione e la produzione di beni di consumo – mette pericolosamente in contatto con specie selvatiche potenzialmente veicolo di patogeni.
Come, probabilmente, è accaduto a Wuhan, dove il contagio sarebbe partito in un mercato dove erano presenti, vivi o macellati, animali selvatici e domestici. Dopo il salto di specie, il virus ha avuto gioco facile a moltiplicare il contagio in una città di 10 milioni di abitanti intensamente globalizzata. Da lì al mondo, il passo è stato breve.
Questo significa, nella sostanza, che, passato un virus se ne potrebbe fare un altro. O, semplicemente, che potrebbe affacciarsi una nuova versione di quello attuale, con tutto quello che ne consegue. In una coazione a ripetere di un eterno distanziamento, lockdown, non più solo fisico, ma che, alla lunga, diverrà anche mentale. Ce la sentiamo di vivere così?
Tutto ciò dovrebbe farci riflettere, alla luce del Corona Virus, sul nostro forsennato modello di sviluppo, sull’aumento della popolazione, sulla crescita delle città e della densità della popolazione e sulla facilità dei trasporti e degli scambi.
Ha senso continuare in questa direzione? Possiamo far cambiare rotta all’antropocene – come è ormai universalmente definita l’epoca geologica iniziata, secondo alcuni, addirittura 10 mila anni fa, con la nascita dell’agricoltura – in cui l’uomo a iniziato a modificare, forse indelebilmente, con la sua impronta ecologica l’ambiente terrestre? Se è possibile, come fare? Siamo disposti a rinunciare ad almeno una parte dei consumi a cui siamo abituati – come viaggi e prodotti, forse di non di prima necessità, ad esempio, la carne, che richiede grande quantità di risorse naturali ed energia per essere prodotti – per ridurre il nostro impatto sul pianeta?
Oppure, possiamo pensare a modelli di sviluppo maggiormente sostenibili, equi e solidali, più razionali e distribuiti? Stili di vita meno energivori e creatori di quelle diseguaglianze che fanno sì che l’1 percento ricco della popolazione possieda l’80 per cento delle risorse economiche globali? Situazione che crea i presupposti per tensioni sociali e conflitti armati per accaparrarsi nuove risorse.
La questione, infatti, passa anche attraverso il modello di sviluppo economico globale a cui ci hanno abituati, al cui centro è la finanza speculativa e non lo sviluppo umano.
Ci si è resi amaramente conto dell’inconsistenza e dell’irrealtà delle regole neo liberiste sull’economia che – a partire dal Presidente Usa Reagan e dalla Lady di Ferro Margaret Thatcher fino alle ricette lacrime e sangue di Fmi e Ue per la crisi greca – ci hanno fatto ingurgitare, ipnotizzandoci con storie di crescita ad libitum e “di magnifiche sorti e progressive”, nonostante le periodiche crisi, ultima questa, che ci mettono in ginocchio.
Senza contare il neocapitalismo dei prestiti e degli investimenti “pelosi” dei Paesi sviluppati in quelli in via di sviluppo. Mascherati come “beneficenza” e solidarietà, ma concepiti, in realtà, solo allo scopo di tenerli al guinzaglio del debito, sottraendo loro risorse al “loro” sviluppo. Complici anche regimi autoritari, se non tirannici, spesso fantoccio e al servizio di qualche potenza, che moltiplicano le diseguaglianze ed i conflitti per mantenere la loro autorità impoverendo le persone che governano.
Di questa situazione ce ne siamo accorti quando, all’epoca del coronavirus, abbiamo scoperto che i tagli di bilancio, le razionalizzazioni ed i piani di rientro per ridurre il debito in linea con quello che ci veniva chiesto, non solo dall’Europa e dal Fmi, ma anche dai mercati e dalle agenzie di rating – che non sono autorità civili, non sono eletti, ma assurgono al ruolo giudici universalmente riconosciuti, organici a questa economia di mercato darwinista dove il debole soccombe – si erano tradotti in ospedali e scuole che non funzionano per mancanza di risorse e di personale, e in un welfare, praticamente al lumicino, che non è in grado di offrire sostegno ai fragili, ai poveri e agli ultimi.
Qualcuno ha detto che muoiono, per lo più, anziani, persone fragili e disabili. Molti in residenze senza un concreto contenimento del contagio. Come fossero, con piglio eugenetico, degli inutili e dei marginali sacrificabili e non persone, storie e lotte da cui imparare per formare il nostro domani: tanti erano partigiani e partigiane. La cui lezione di vita non dobbiamo dimenticare.
Siamo d’accordo che fare debito sia sbagliato.
Come lo è, però, anche il propugnare ciecamente che lo sviluppo umano venga dopo quello economico. Quello che importa, non dovrebbe essere il debito o una fiscalità opprimente, ma perché e per cosa si fa debito e su cosa, tramite esso, s’investe. Per che cosa le tasse vengono utilizzate, se per finanziare il debito o per migliorare il benessere reale delle persone. E non sul breve, ma sul lungo periodo. Con una visione che, almeno negli ultimi 50 anni, è stata colpevolmente assente nell’ottica di inseguire l’oggi senza pensare al domani. Questo, del resto, significa consumare: rodere all’osso senza conservare niente per domani.
Cambiare, inoltre, deve essere fatto con coraggio e a livello globale, combattendo le speculazioni e riducendo le diseguaglianze: non possiamo più pensare che ciò che ci accade intorno sia ininfluente su tutte le vite presenti e su quelle future.
Ci può essere un’altra globalizzazione rispetto a quella attuale. Quella solidale. Del resto, anche se all’inizio c’è stata qualche resistenza, ogni Stato, in questi giorni, si è reso conto che non può fare spallucce se, oltre i suoi confini, qualcuno è nei guai.
Questa consapevolezza è arrivata, a scalare, fino all’ultimo dei suoi cittadini.
Sarebbe bello, e forse accadrà, che questa consapevolezza arrivasse anche nei confronti dei tanti migranti che fuggono da crisi economiche, politiche e ambientali che rifiutiamo alle frontiere della fortezza Europa.
Ci siamo resi conto, improvvisamente, di quanto sia fragile il nostro modello di sviluppo e di quanto, oltre ad essere piccolo ed isolato nell’universo, il nostro pianeta, l’unico che abbiamo, sia diventato stretto e di come, in queste condizioni, il battito di una farfalla in una remota foresta pluviale possa scatenare un uragano ai suoi antipodi.
Già Jared Diamond, con il suo “Armi, acciaio e malattie: Breve storia del mondo negli ultimi tredicimila anni“, ci aveva aveva avvertito di come fosse fragile il nostro modello di sviluppo in una prospettiva non darwinista basata su fenomenologie locali inserite in una dinamica globale.
In “Collasso: Come le società scelgono di morire o vivere“, sempre Diamond, ci mette di fronte ai dilemmi e alle soluzioni sbagliate di società che si sono trovate di fronte ad un bivio ed hanno fatto scelte sbagliate che le hanno portate al collasso.
Ci è servito l’arrivo del “Cigno nero“, quasi “profetizzato” da Nassim Nicholas Taleb, per rendercene finalmente conto, ma troppo tardi per tornare indietro. Siamo costretti ad andare avanti. Come?
Sempre Taleb, nel suo “Rischiare grosso, l’importanza di metterci la faccia nella vita di tutti i giorni“, usa una metafora che credo sia molto adeguata ai tempi: se il fuoco t’insegue correrai più in fretta che in qualsiasi gara.
Ora il fuoco c’insegue. Saremo capaci, tutti insieme, come genere umano, di correre ai ripari e a correggere la rotta catastrofica e senza via d’uscita che abbiamo preso?
“Il segreto del nostro successo è l’immaginazione. Siamo gli unici animali capaci di parlare di cose che esistono solo nelle nostre fantasie: come le divinità, le nazioni, le leggi e i soldi”, scrive Yuval Noah Harari nel suo “Sapiens. Da animali a dei: Breve storia dell’umanità“. Una presa di coscienza di come l’uomo abbia cambiato il mondo e di come, per continuare a cambiarlo senza soccombere, in una inconsapevole , ma comunque colpevole e festante “coazione a ripetere” i nostri errori, prima dobbiamo cambiare noi ed il nostro modo di pensare, fino a quello di essere, anche in termini di individui e di comunità
Sempre Harari, nel suo “Homo deus“, riflette, inoltre, su come, nella seconda metà del scorso, l’umanità sia riuscita a vincere una sfida che, per migliaia di anni è sembrava, impossibile: controllare carestie, pestilenze e guerre. Questo è stato possibile grazie alla scienza e alla tecnologia. Oggi portiamo in tasca computer interconnessi, inimmaginabili solo 20 anni fa. La tecnologia, d’altro canto, ha i suoi pro ed i suoi contro.
Ci ha aiutato a sconfiggere le malattie, la fame e le guerre, ma spesso consumando il mondo e creando nuove forme di conflitto tra poveri e ricchi. Inoltre, quali sono i pro e i contro dell’evoluzione della cibernetica e dell’intelligenza artificiale, che si affacciano oggi in concreto al loro utilizzo pratico, anche in caso di crisi: riusciremo a dominarle o prenderanno loro a dominarci in scenari apocalittici alla Terminator? La domanda è d’obbligo, a partire dalla salinizzazione delle fertili pianure mesopotamiche, a causa dell’irrigazione, fino agli olocausti nucleari della prima metà del ventesimo secolo. Riusciremo a piegare quello che sappiamo fare a quello che davvero serve al genere umano nel suo complesso?
Può sembrare fantascienza, ma lo sembra perché occorre andare oltre i modelli collaudati. Quelli che, portati agli estremi, contribuiscono a immaginare visioni distopiche, ma non necessariamente conseguenti se, nella percezione rischio che corriamo in prospettiva, la nostra visione sa farsi da contingente a prospettica. Occorre usare l’immaginazione e le tecnologie che abbiamo, studiarne di nuove, ed applicarle, velocemente e sostenibilmente, per uscire da questa crisi e da quelle future, fino, forse, a prevenirle.
Forse, poi e soprattutto, è arrivato il momento di guardare collettivamente al nostro passato prossimo e remoto con occhi differenti. Anche partendo dai valori espressi dalla nostra Liberazione, riflettendo sul significato di essere comunità solidale non solo di prossimi, ma anche a livello globale. In un mondo stretto, è stupido pensare all’interno, all’appagamento vacuo, anche se entro certi limiti necessario, del nostro apparato digerente e della preoccupazione di soddisfare i “nostri” bisogni per il futuro. Occorre guardare oltre. Al come dargli un senso. Non solo per noi, ma per tutti.
Occorre guardare ad un modello di sviluppo globale, ad esempio, che lasci da parte il profitto e la speculazione finanziaria, per favorire l’impatto sociale e la sostenibilità.
Che crei i presupposti per inclusione, occupazione, uguaglianza e diritti civili, economici, politici e sociali per tutti, come comunità globale, non solo nelle nostre comode ristrette. Come quello, e lo dico con una punta d’orgoglio, visto che a questo sistema appartengo, della cooperazione sociale integrata, dove la differenza non è debolezza e l’inclusione è punto di forza e di dialogo.
Credo, e permettetemi di continuare a crederlo nel mio piccolo, con l’ambizione modesta che possa essere concetto abbracciato da altri, che la condivisione, la cooperazione, e l’inclusione e lo sforzo comune per il bene collettivo, siano l’unica alternativa a questo mondo che crea separazioni, ingiustizie e disparità.
Cooperazione, non competizione. Continuare a pensare in questo modo, ma anche agire in questo senso. Altrimenti non si va da nessuna parte. Siamo individui nel mondo, dobbiamo però assumere la consapevolezza che la responsabilità della rotta del nostro futuro non è più individuale, ma collettiva. Vi abbraccio tutti, anche se virtualmente, in attesa di poter ragionevolmente ripristinare dinamiche naturali di collettività. Sia pur consapevoli di questa attualità e in attesa dei cambiamenti radicali al nostro stile di vita, che potremo fare solo tutti insieme per garantirci un futuro come specie e dare ad esso un senso.
Persone sono morte per liberarci. Persone sono morte, oggi, per cambiare la nostra visione e darci una visione alternativa per il nostro futuro. Ieri ed oggi, ci insegnano qualcosa: non girarci dall’altra parte e costruire un mondo nuovo.
Vedo persone aiutare persone. Ascolto il cinguettare degli uccelli che, non costretti, hanno ripreso il cielo, gli alberi e i nidi nelle città. Mi affaccio di notte e vedo stelle che, fino a due mesi, fa erano oscurate dall’inquinamento atmosferico e luminoso delle città. La natura ha ripreso, in breve, posto che le avevamo sottratto. Lanciando un messaggio: fermatevi, siamo insieme, nello stesso posto, e siamo più forti, se nel volgere di poche settimane abbiamo riconquistato i nostri spazi senza, praticamente, lotta.
Con umiltà, cito William Shakespeare, Amleto:
Ci sono più cose in cielo e in terra, Orazio, /di quante tu ne possa sognare nella tua filosofia
Sogniamo e creiamo insieme la nostra attuale, possibile e consapevole rivoluzione.
Ringrazio mio nonno ed i partigiani, che non ho potuto abbracciare ed ascoltare abbastanza, per la lezione che ci hanno dato e che siamo recalcitranti ad accettare. Facciamolo adesso e per tutti noi: possiamo cambiare, bisogna farlo. Bella ciao l’ho cantata. Fuori c’è il tricolore, ma vorrei, insieme alla nostra, da tutti voi, che ci fosse un’unica bandiera. Quella del mondo come lo vorremmo e come possiamo costruirlo. Se solo lo vogliamo tutti insieme.