È morto a 94 anni l’innovatore della cura ai pazienti mentali, uno psichiatria dell’interiorità in cui anche arte, filosofia e letteratura possono servire per spiegare e alleviare la sofferenza.
Villa Borgna, a Borgomanero, terra novarese che chiude la pianura e si apre allo scenario delle Prealpi, è quasi un’istituzione. Tra quelle mura austere era tornato a vivere da qualche decennio Eugenio Borgna, il grande psichiatra che ieri è morto a 94 anni. Primario del reparto di psichiatria dell’Ospedale di Pavia, quindi, dal 1963, Direttore del servizio psichiatrico dell’Ospedale Maggiore di Novara, a lungo docente anche a Milano, ha inaugurato un filone originale di vicinanza e cura ai pazienti mentali, una sorta di psichiatria dell’interiorità in cui anche arte, filosofia e letteratura possono servire per spiegare e alleviare la sofferenza del paziente. Sostenitore della riforma Basaglia, è stato tra i primi specialisti in Italia, come Direttore del reparto femminile dell’Ospedale psichiatrico di Novara, ad eliminare ogni forma di coercizione. Già a metà degli anni Sessanta, aveva dato disposizioni perché le circa duecento pazienti non fossero legate e potessero passeggiare per i corridoi e per i giardini. Aveva preteso che non ci fossero inferriate alle finestre e che le porte non fossero chiuse. Scelte che allora avevano suscitato stupore e qualche opposizione, non tanto tra i colleghi – le scelte di ogni Direttore all’interno degli ospedali psichiatrici erano insindacabili – ma tra gli infermieri più anziani, abituati a reparti protetti e invalicabili come un penitenziario. Ma per Borgna al centro di qualsiasi percorso di cura non c’era la malattia mentale, ma la persona con le sue sofferenze e le sue grandi domande esistenziali.
Dialogo, ascolto empatico, condivisione dei vissuti non rappresentavano per Borgna soltanto una prassi clinica, ma erano un metodo di incontro, un desiderio di vicinanza e di conoscenza, che applicava in ogni ambito della vita. Affabile con tutti, cordiale, sorridente, era solito passeggiare lungo le vie della sua cittadina con un libro davanti agli occhi e una mazzetta di giornali sotto il braccio. Ma nessuno si stupiva. Per tutti era normale che il “Professore” fosse immerso nello studio in ogni frangente, anche tra viali e marciapiedi. Ma quando qualcuno lo fermava per un saluto, per uno scambio di battute, si concedeva volentieri. E molto spesso il dialogo diventava fitto scambio di opinioni, con lui che gesticolava con quelle sue braccia lunghe e magrissime.
A metà degli anni Settanta aveva accettato di impegnarsi nell’amministrazione comunale, ed era diventato prima consigliere poi sindaco di Borgomanero. Una scelta che, prima e dopo di lui, avevano fatto e faranno i fratelli e le sorelle sull’esempio del padre Giacomo Luigi, avvocato e partigiano con le formazioni dell’Ossola, figura importante dell’antifascismo cattolico. Quando, dopo l’armistizio del ’43, i nazisti entrarono a Borgomanero, Villa Borgna fu tra i primi edifici ad essere occupati. Eugenio, allora tredicenne, con i fratelli e la madre – come lui stesso ha frequentemente rievocato – riuscì a fuggire all’ultimo istante attraverso il parco e a riparare in Svizzera. Anche per quei trascorsi, come esponente illustre di una famiglia le cui vicende si sono intrecciate strettamente agli ultimi settant’anni di storia della cittadina novarese, l’impegno politico del grande psichiatra è stato considerato dai suoi concittadini come l’esito coerente di una scelta generosa a favore del bene comune. I cronisti locali, chi scrive era tra quelli, ricordano i suoi lunghi e complessi interventi in consiglio comunale, con citazioni che andavano da Kafka a Rilke, da Etty Hillesum a Karl Popper. I “Colleghi” di maggioranza e opposizione ascoltavano in silenzio rispettoso, qualcuno per dovere d’ufficio e forse per l’impossibilità di imbastire una qualsivoglia replica, altri contenti che una noiosa seduta serale si potesse trasformare nell’occasione di imparare qualcosa.
Era ben noto a tutti che la presenza di Borgna sulla poltrona più importante del consiglio comunale fosse un “prestito” a tempo limitato, quasi sproporzionato rispetto al ruolo che lo psichiatra già rivestiva nella sua attività professionale a livello nazionale. Già in quegli anni era tra i principali e più significativi esponenti della psichiatria fenomenologica e della psicologia esistenziale. Uno studioso originale e controcorrente per le convinzioni psichiatriche dell’epoca. Borgna aveva contestato i criteri di approccio tradizionale e aveva rigettato ogni forma di riduzionismo biologico. Per lui l’interpretazione naturalistica delle patologie mentali, secondo cui le cause della sofferenza sono da ricercare nel malfunzionamento dei centri cerebrali, riusciva a cogliere solo un aspetto del problema. E, di conseguenza, si diceva convinto che la cura non potesse avvenire solo con farmaci né, tantomeno, con altre terapie invasive. Non accettava però neppure di essere definito un esponente della cosiddetta “antipsichiatria“. La sua prassi clinica era fondata sul dialogo e sul confronto “culturale” con il paziente, anzi con le pazienti, quelle che anche dopo aver abbandonato la direzione dell’ospedale psichiatrico, non smettevano di cercarlo e di andarlo a trovare. E lui non sapeva sottrarsi: “Ho studiato a lungo la psiche femminile – raccontava – ho accolto la sofferenza di tante donne e posso dire di essere più adatto ad assistere e a confortare la solitudine di un’anima femminile rispetto a una maschile“. Non a caso, tra i suoi sterminati riferimenti culturali, mistiche, poetesse e filosofe hanno rappresentato un gruppo privilegiato, un ambito antropologico a cui non poteva rinunciare. Amava Emily Dickinson e Simone Weil, Teresa di Lisieux e Antonia Pozzi. Citava spesso Virginia Wolf e il suo sguardo sulla malattia come cambiamento spirituale, come “desolazione e deserto dell’anima“, ma anche Chiara d’Assisi come paradigma di mitezza e di apertura all’altro e alla sua sete interiore.
L’elenco delle sue opere supera abbondantemente lo spazio previsto per questo articolo. Possiamo solo dire che ha saputo alternare produzione specialistica – con alcuni studi importanti sulla depressione, sulla schizofrenia e sulla follia come esperienza di conoscenza e di sapere – a opere più divulgative tra cui alcune, come Nei luoghi perduti della follia (2008); Le emozioni ferite (2009); La solitudine dell’anima (2011); Di armonia risuona e di follia (2012); La dignità ferita (2013);La fragilità che è in noi (2014); Il tempo e la vita (2015); Parlarsi (2015) sono diventate altrettanti best-seller. Ha scritto anche un saggio dedicato a Clemente Rebora, uno dei suoi poeti preferiti (Apro l’anima e gli occhi. Coscienza interiore e comunicazione).
Insomma, uno scienziato umanista, un uomo buono e profondo, che per tutta la sua lunga vita ha frequentato e abbracciato la fragilità riconoscendone l’assoluta dignità umana con uno sguardo originale, proiettato verso quell’invisibile di fronte a cui preferiva fermarsi, guardarlo da lontano, con il rispetto e la consapevolezza degli uomini colti e saggi che osservano e riflettono “l’indicibile silenzio“, come lui amava definire il mistero dell’esperienza di Dio.
Fonte: Avvenire.it
Photo: Avvenire.it