L’arte è uno dei modi in cui noi, esseri umani, diamo significato alla vita. Con il teatro e la recitazione la rappresentiamo, la capiamo e, a volte, riusciamo anche a cambiarla. È così per Dario D’Ambrosi che più di trent’anni fa ha ideato e fondato il Teatro Patologico. Un luogo fisico, una visione sociale, un progetto di integrazione e sensibilizzazione così importante e rivoluzionario da essere presentato all’ONU. “Il Teatro integrato dell’Emozione” è diventato anche un corso di Laurea e noi oggi scopriamo di che cosa si tratta con Dario D’AMBROSI, fondatore e direttore del Teatro Patologico.
Dario D’Ambrosi: “Da 30 anni il Teatro Patologico ha dimostrato che il malato di mente è in grado di regalare bellezza. Quando recita, la gente non lo vede più in un letto di contenzione o dentro una camicia di forza“.
Nel momento in cui ci sentiamo Dario D’Ambrosi sa bene che il suo Teatro Patologico è sbarcato all’Ariston in occasione del Festival di Sanremo, ma chiede di mantenere il riserbo perché ha paura che spoilerare la notizia in occasione del nostro numero sulle Inspiring Icons possa inficiare in qualche modo sulla partecipazione. Se abbiamo scelto D’Ambrosi tra le persone da tenere d‘occhio per il nuovo anno è perché, se l’Italia è riuscita a superare l’idea del malato mentale allettato e trattenuto dentro una camicia di forza, il merito è (anche) suo. Da più di 30 anni Dario D’Ambrosi è, infatti, il deus ex machina di un progetto, il Teatro Patologico appunto, grazie al quale i ragazzi con disturbi mentali riescono a trovare giovamento calcando un palcoscenico. “Questa primavera sarò all’ONU a presentare una ricerca scientifica che dimostra come la teatroterapia incida positivamente non solo a livello emotivo, ma anche cerebrale. Attraverso dei macchinari specifici, infatti, uno staff di medici è riuscito a protocollare i risultati rendendo l’Italia un Paese pioniere in questo settore“.
È orgoglioso che questa rivoluzione sia partita dall’Italia?
“Non poteva essere altrimenti, visto che siamo stati il primo Paese al mondo a chiudere i manicomi grazie a Franco Basaglia, ma anche il primo ad aver fondato un corso universitario a Tor Vergata rivolto a ragazzi disabili psichici e fisici proprio grazie al mio Teatro Patologico“.
Che cos’è la teatroterapia?
“Una grande occasione per tutti i ragazzi disabili, che io chiamerei più correttamente speciali, di tirare fuori la loro sincerità e la loro bellezza in un teatro. Aver avuto l’esperienza di collaborare con il Teatro dell’Opera di Roma e calpestare le stesse assi sulle quali si sono esibiti mostri sacri come Luciano Pavarotti e Placido Domingo è stata un’emozione incredibile. Quando i nostri ragazzi recitano, gli spettatori non vedono più i malati di mente in un letto di contenzione ma delle persone che hanno un mondo da raccontare e da esprimere“.
È stata dura far capire che i malati fossero anche altro?
“Cinque anni fa, quando ho presentato il progetto del corso universitario all’ONU di fronte a 500 ambasciatori, ho ricevuto tantissimi applausi ma, a un certo punto, ho detto loro: guardate che questi ragazzi che vedete recitare voi li tenete ancora stretti nelle camicie di forza. Noi in Italia diamo loro un titolo universitario e voi restate indietro: tutto si può dire di noi tranne che, da questo punto di vista, non abbiamo fatto dei passi da gigante rispetto agli altri“.
Eppure lo stereotipo del malato di mente persiste.
“Mi piacerebbe che ci staccassimo tutti da questa idea arcaica di malato: il ragazzo disabile che soffre è in grado di regalare bellezza, e la teatroterapia è lo strumento che lo aiuta a farlo. Interpretando un personaggio, i ragazzi riescono a tirare fuori la loro patologia e a uscire dalla loro solitudine. Non guariscono ma, quanto meno, iniziano a sapere gestire quello che hanno e affrontano ogni giorno. Ho iniziato questo lavoro nel 1980, dopo essere stato internato io stesso nel manicomio Paolo Pini di Milano: da allora, ho sostenuto e aiutato 1700 ragazzi, e questo non può che rendermi fiero“.
Se certe idee sui malati sono state abbattute il merito è anche di Dario D’Ambrosi.
“Quando abbiamo ricevuto la Lupa Capitolina, il Premio Kennedy e siamo stati ricevuti dall’ONU le cose sono finalmente cambiate: il Teatro Patologico è diventato un’istituzione che può consigliare un metodo in grado di cambiare le cose. In Italia sono 17 milioni le persone che soffrono di qualche patologia, inclusa la ludopatia e l’anoressia. Credo davvero, e non per presunzione, che il Teatro Patologico possa essere un medicinale potente per questo Paese“.
È bellissima la passione che mette nelle sue parole, lo sa?
“È questa passione che mi ha salvato. Ho avuto dei ragazzi che erano catatonici, delle larve umane portate da genitori distrutti, e si sono trasformati in ragazzi in grado di sorridere e di guardarti negli occhi. La cosa più bella me l’ha detta una madre: “Dario, io non so se mia figlia diventerà un’attrice, ma da quando frequenta il Teatro Patologico ho ripreso a dormire la notte“. Cosa c’è di più straordinario di questo? Spero che cornici come quella del Festival di Sanremo possano aiutare il nostro progetto ad avere ancora più visibilità, perché l’arte può diventare una cura, e mi premerebbe farlo capire a quante più persone possibili. Ci tengo a dire un’altra cosa“.
Prego.
“Spero che, dopo il passaggio in sala per appena tre giorni, il nostro film che si chiama Bomba Atomica possa uscire nuovamente al cinema al più presto. Si chiama così perché, alla fine di uno spettacolo, un ragazzo autistico mi ha detto che noi del Teatro Patologico siamo più forti di una bomba atomica perché non ammazziamo la gente, ma riusciamo a farle cambiare idea. In più porteremo uno spettacolo ad Atene, un altro, dedicato all’Inferno di Dante declinato con le patologie dei nostri ragazzi, a Broadway: insomma, non stiamo con le mani in mano. Dateci, però, una possibilità. E non lasciateci soli“.
Fonte: Vanityfair.it
Photo: Vanityfair.it