La prima indagine sul fenomeno
Una indagine sui Neet i giovani che nè studiano né lavorano a cura dell’ Associazione WeWorld, in collaborazione con il Cnca e la rivista “Animazione sociale” racconta la prima indagine sul fenomeno. L’indagine è stata condotta grazie alle interviste di Ipsos a oltre mille ragazzi tra i 18-29 anni. Questi ragazzi risultano invisibili perché non lasciano tracce, da qui l’importanza di una ricerca. “Usare genericamente questa terminologia Neet è pericoloso”, affermano alla stampa i ricercatori, perché è un contenitore di situazioni assai diverse, con generalizzazioni ed etichette in senso negativo e situazioni specifiche troppo facilmente rese omogenee. A cominciare dai numeri. Quanti sono? Se si prende la fascia di giovani tra i 18-29 anni, nel 2014 sono stati 2,328 milioni; se si estende la fascia dai 15-34 aumentano fino ad arrivare ai 3,512. Tanti, contro una media Ue del 16,5 per cento, l’Italia supera il 27. Con una rilevante differenziazione sul territorio tra la media del 20 al Nord e del 35 al Sud. Prevalentemente maschi, che già sono più a rischio delle femmine anche per la dispersione scolastica (che nel nostro Paese tocca ancora il 15 per cento degli studenti che non conclude il percorso scolastico di primo o di secondo grado, contro una media dei 28 paesi UE dell’11,7 e che pone l’ obiettivo di assestarsi entro il 2020 al 10).
Le cause principali
Proprio la dispersione scolastica, per i ricercatori di WeWorld, è la principale causa di correlazione che determina il fenomeno dei Neet: 1 ragazzo su 4 ha dietro di sé un percorso scolastico chiuso con un abbandono prematuro (segnato da bocciature, interruzioni, cambi di indirizzo), seguito, nelle cause, da altri fattori come, condizione economica e sociale d’origine, la situazione famigliare e personale, il contesto economico nazionale. Soprattutto la famiglia, “assume un ruolo determinante e quasi determinista: genitori con un titolo di studio basso avranno con ogni probabilità figli poco istruiti”. L’indagine è composta di due parti. Nella prima ci sono le storie, il racconto diretto dei giovani per capire i motivi, le ragioni di questi percorsi negativi. Sono stati ascoltati 42 ragazzi in sette città (Torino, Milano, Pordenone, Palermo, Napoli, Roma, Bari), ed emergono alcuni profili interessanti, anche per il mondo della società civile. Nelle storie dei Neet è poco presente la partecipazione a realtà associative e gruppi organizzati, anche su temi potenzialmente interessanti come la tutela ambientale, lo sport, l’impegno sociale e solidaristico; la scuola appare poco presente e viva; quasi del tutto assente esperienze serie di orientamento scolastico, sia nel passaggio verso le superiori sia verso percorsi successivi; permanenza prolungata di vita nella famiglia di origine che, secondo gli studiosi, è uno dei motivi di rallentamento della crescita del nostro Paese. Nella seconda parte della ricerca emerge che “l’Italia non è un Paese per giovani”. Al di là dei dati, sono alcuni elementi di fondo che allarmano: sono giovani che pur ritenendo in teoria la scuola determinante per l’inserimento nel mondo del lavoro, la considerano inutile per il proprio percorso, per chi lavora determinanti sono state le conoscenze giuste; sono pessimisti, l’88 per cento ritiene che siano scarse o limitate le possibilità per un giovane di trovare lavoro; poca fiducia negli altri e nella politica in particolare, anche se è ormai ribaltato il rapporto con gli amici, oggi sono i genitori (e in particolare la madre) a suscitare più fiducia; spesso quindi ripiegati su se stessi con poche aspettative, e poco capaci di affrontare il mondo circostante e di affrontare le sfide della complessità.
Le possibili soluzioni
Cosa fare allora? La risposta delle organizzazioni del viene dal presidente di WeWorld. “La direzione verso cui stiamo andando è quella giusta: l’idea è non solo di individuare dati numeri, ma tracciare delle linee di azione e intervenire direttamente sporcandosi le mani. La prevenzione passa per il sostegno dei ragazzi a scuola, riducendo se non eliminando la dispersione scolastica”. E aggiunge: “Solo costruendo stabili relazioni tra scuola, famiglia e territorio è possibile creare un ambiente favorevole al recupero dei ragazzi più fragili, a rischio di abbandono”. In buona sintonia è la risposta delle istituzioni: Anna Maria Leuzzi, del Miur: “Siamo finalmente in possesso dell’anagrafe degli studenti e abbiamo fatto un passo avanti notevoli anche sul Sistema di valutazione. Le amministrazioni che hanno competenza per prevenire la dispersione, anche a livello locale, hanno consapevolezza della gravità della situazione (pur migliorata negli ultimi anni) e stanno approntando azioni di contrasto. Il punto è quali di queste possono avere risultati ed effetti?”. Dalle prime analisi del governo emerge che dal 2008 si è lavorato sulla prevenzione dispersione e miglioramento delle competenze chiave, soprattutto in quelle regioni in ritardo di sviluppo.