Riflessioni sul valore dell’economia delle relazioni e della cooperazione
Il valore della cooperazione secondo il sociologo Richard Sennett, uno dei più acuti osservatori della società contemporanea. Nel suo ultimo lavoro Insieme (Feltrinelli, 2012), sottolinea l’importanza della simpatia che, con l’empatia, costituisce una vera e propria pulsione cooperativa, oltre che un rimando all’evangelico «ama il tuo prossimo come te stesso». Ovunque, oggi, le parola d’ordine è «agire rapidamente», «fare in fretta», come se la crisi, che richiede sicuramente energia risposte, non avesse tempo per le domande e quindi per il tempo della riflessione. E con le domande non implicasse attenzione ai dettagli, non solo al bersaglio grosso del bilancio e con questi dettagli bloccasse preventivamente ogni dialogo, ogni ascolto, ogni simpatia. Il portale Vita ha incontrato il sociologo, riprendiamo alcuni passi della loro intevista: “È un paradosso vedere uomini improntati su schemi contabili oramai fuori tempo massimo che, dopo averci portato allo sbando, si presentano – o così vengono presentati dai media – come portatori sani di un’ideologia che, appellandosi al nuovo che avanza, fa in realtà avanzare ciò che di più vecchio e spento permane nel nostro sistema: la competizione. Beninteso, parlo di competizione come dogma.La competetizione è vita, ma se viene assunta come dogma rende ciechi e sterili e si tramuta, paradossalmente appunto, nel suo contrario. Se in una società quello che conta fosse solo competere, anche a costo di disfare tutto al fine di arrivare soli alla meta, andremmo diritti verso il baratro. E forse è ciò che stiamo rischiando. Dobbiamo imparare a non volerci imporre, a cooperare, a collaborare, a comunicare nel senso etimologico e forte della parola.Dobbiamo smettere di ascoltare chi ci propone formulette magiche, basate di tagli al welfare e soldi alle grandi banche d’affari. Dobbiamo reimparare la virtù dello stare insieme agli altri – ecco perché è importante la simpatia – senza la forzatura di volerci uguali a loro. Che cosa succederebbe se durante uno sport competitivo ma di gruppo, prendiamo ad esempio la staffetta, gli atleti della stessa squadra anziché collaborare passandosi il testimone e facendo ognuno del proprio meglio per guadagnare posizioni e secondi, si mettessero a competere uno contro l’altro? Semplicemente, sarebbe il disastro. Competere, competere e ancora competere, si dice. Ma con chi? E quando non avremo più nessuno con cui competere cosa faremo, ci guarderemo allo specchio in cerca di un nemico? Il tribalismo economico è un’anticaglia alla quale voi italiani non siete mai stati troppo devoti. La cooperazione è uno scambio in cui i partecipanti traggono vantaggio dall’essere insieme, e in questo sta – qui e ora – la sua forza. Cooperare richiede abilità nel comprendere e capacità di rispondere emotivamente agli altri. Non si coopera su un social network, si coopera nella vita e nel lavoro. C’è un valore culturale forte, nella cooperazione, nell’autoaiuto, nel mutualismo, nella solidarietà informale della famiglia o tra le generazione, e nella capacità di leggere l’economia come spazio concreto del vivere e del fare, non come mero purgatorio dei numeri. Tutte cose che in Italia hanno una tradizione antica e vitale. Una tradizione che parla però già il linguaggio del nostro futuro. Perché cooperare è il futuro. Il futuro è in questa economia delle relazioni, del dialogo, dello stare e del fare insieme, non nell’ambigua finanza del competere. Non ci si salva da soli, questo spiegatelo a chi ha preteso di darvi lezioni su questo. E se non lo capiscono, comunque non seguiteli.
L’uomo flessibile
Nel 2008 in piena crisi finanziaria Sennett scrisse che era arrivata l’ ora di restituire valore al lavoro fatto con le mani o con il cervello ma sempre con perizia artigianale, e di guardare al passato per ricostruire il nuovo su basi solide. Il sociologo americano professore alla New York University e anche alla London School of Economics nonché consigliere di Barack Obama, che fu il primo a diagnosticare i danni della flessibilità spinta e del “cattivo lavoro” con il suo saggio “The corrosion of character” pubblicò in Italia un libro con il titolo “L’uomo flessibile” negli anni Novanta, proprio mentre Jeremy Rifkin prediceva la fine del lavoro e una nuova qualità della vita diffusa, dono delle tecnologie. In questo lavoro già scriveva che bisogna “trascorrere più tempo con le persone che sanno fare le cose” e meno ad ascoltare i discorsi dei manager. E che la felicità è nel cooperare.
Utilizziamo i cookie per essere sicuri che tu possa avere la migliore esperienza sul nostro sito. Se continui ad utilizzare questo sito noi assumiamo che tu ne sia felice.Ok