Con la crisi gli imprenditori chiudono le loro aziende e i dipendenti le riaprono. Facendosi cooperativa
Il profitto non è tutto. Questo sembra rivelare un’interessante inchiesta de “la Repubblica” su un fenomeno economico e sociale che sta emergendo in Italia: il workers buy out, l’acquisto delle imprese da parte dei loro dipendenti e la loro gestione in forma cooperativa.
È forse la resa dei conti tra il modello d’impresa tradizionale, quello del capitale, del consumo e del profitto a tutti i costi, e quello dell’impresa sociale, sostenibile e solidale?
Le conseguenze della crisi
È sotto gli occhi di tutti, quotidianamente lo leggiamo sui giornali e lo vediamo in televisione. Con la crisi, calano i consumi, crollano i profitti e molti imprenditori, invece di rischiare e tenere duro, chiudono le aziende, sottraendo loro il capitale di rischio, magari per impegnarlo in speculazioni o investire all’estero, dove il costo del lavoro e le tasse sono più basse e le regole flessibili. Ci sono casi in cui – come questa estate alla Firem di Formigine, in provincia di Modena – intere fabbriche sono state smontate di notte, all’insaputa dei lavoratori, e trasferite all’estero. Niente più stipendio da un giorno all’altro, intere famiglie sul lastrico, il futuro improvvisamente dietro le spalle e l’unica certezza di un presente di stenti. Non va sempre così, è vero, ci sono tanti piccoli e medi imprenditori che sacrificano per primo il proprio stipendio pur di non mandare a casa i dipendenti, ma, soprattutto, accade, rivela l’indagine de “la Repubblica”, che siano i dipendenti a riaprire le aziende, creando, nella maggior parte dei casi, delle cooperative tra lavoratori.
39 casi in tutta Italia
Dalla Lombardia alla Sicilia, dal Veneto al Lazio, ma soprattutto in Emilia Romagna ed in Toscana, in tutta Italia sono quasi una quarantina, tra quelle già in attività e quelle in fase di elaborazione di un nuovo piano industriale, le aziende che rifioriscono grazie a chi ci lavora. Certo, tra queste esperienze si conta anche qualche fallimento, non tutte le storie sono a lieto fine, ma il tasso di successo di questo modo di fare impresa è molto alto: 8 su 10 ce la fanno. Un risultato eccezionale, se si pensa che tra le tanto decantate start-up tecnologiche e web meno di 2 ogni 10 create diventano vere imprese.
Una storia che viene da lontano
Il primo caso documentato di questo fenomeno d’imprenditoria solidale si narra sia quello della fabbrica Putilov di Pietroburgo, nel 1917, alla vigilia della rivoluzione di ottobre, quando gli operai presero le redini della produzione di fronte alla minaccia di chiusura dello stabilimento. Il miracolo si è rinnovato nell’Argentina del crack economico dei primi anni del 2000 – quello dell’inflazione al 200% che trasformò i titoli di stato di Buenos Aires in carta straccia, mettendo sul lastrico risparmiatori di tutto il mondo – che oggi conta ben oltre 300 imprese gestite dai dipendenti e, più di recente, negli Usa – con l’economia affondata dalla bolla speculativa immobiliare dei sub-prime del 2008, da cui nasce la crisi attuale – dove sono decine le imprese dichiarate decotte dai proprietari e rinate grazie chi ci lavora dentro. Ultimo esempio, la Grecia della bancarotta di questi ultimi, terribili, anni, dove sono sempre di più le aziende che sopravvivono, cacciati imprenditori e dirigenti, grazie ai lavoratori. Ora anche in Italia il fenomeno esplode e sembra destinato fatalmente a crescere, come conseguenza della crisi, certo, ma anche come segnale di speranza e di cambiamento per il futuro del Paese.
Un modello economico che funziona
Non è un caso che il neo presidente del Consiglio Matteo Renzi abbia tessuto proprio in questi giorni le lodi del Terzo Settore, anzi, “il primo” come ha precisato lui stesso, e che il ministro del lavoro e delle politiche sociali in carica sia Giuliano Poletti, già presidente di Legacoop.
Il Terzo Settore, in Italia, senza scendere una volta di più nel merito di cifre ormai stracitate, che rappresentano una serie storica fatta di costante crescita negli ultimi 20 anni, è quello che è cresciuto di più in termini di fatturato, imprese ed occupati – quando gli altri subivano la contrazione dei consumi e del credito alle imprese, per via della crisi, e reagivano chiudendo e licenziando – ed ha tenuto meglio grazie alla sua capacità di essere mutualmente flessibile al suo interno, riducendo così anche la necessità di ricorrere agli ammortizzatori sociali per far sopravvivere l’impresa e scaricare gli oneri imprenditoriali sulla comunità. Un’evidenza che, al di là di ogni volontà critica nei confronti dell’imprenditoria italiana, fatta nella maggior parte dei casi di PMI d’eccellenza e d’imprenditori geniali e coraggiosi, non può essere ignorata.
Sostenibile e solidale
I casi di studio fatti emergere dall’inchiesta de “la Repubblica”, sono una volta di più – se ce fosse stato ancora bisogno – la dimostrazione del fatto che l’impresa sociale, la cooperazione, è un modello d’impresa sostenibile, che crea sviluppo ed occupazione nel Paese. È un luogo dove al centro c’è il lavoro e la dignità di tutti i lavoratori, dove le scelte e le strategie imprenditoriali sono condivise e partecipate dai soci-lavoratori, dove lo spirito mutualistico divide tra tutti gli oneri e gli onori del rischio d’impresa e l’utile, pagati gli stipendi, viene impiegato per gli investimenti, per la crescita e per il futuro. Non solo profitto e denaro, no. Nell’impresa sociale il capitale è umano.