Alceste Santuari, Università di Bologna, analizza gli effetti della legge di riforma sulle non profit e la loro organizzazione
«Un tentativo che dice di un’intenzione del Governo di intervenire in un mondo che forse ha bisogno di una diversa “cultura”». Sono le parole di Alceste Santuari, docente di Diritto dell’economia sociale a Bologna, che a VDossier n. 1/2016 ha spiegato il senso della riforma nell’Italia di oggi.
Alceste Santuari, docente di Diritto dell’Economia degli Enti Non Profit nel corso di laurea magistrale in Management dell’economia sociale all’Università di Bologna – Campus Forlì, spiega il senso della scelta fatta con questa legge nel contesto della società italiana: «Non è la prima volta che il legislatore tenta una riforma in tema di Terzo settore, poiché dal 1996 in poi, si sono succeduti vari tentativi di mettervi mano. Quello attuale è un tentativo meritevole di attenzione, che dice di un’intenzione del Governo di intervenire in un mondo che forse ha bisogno di una diversa “cultura”. Inoltre il Governo ha deciso di intervenire con uno strumento apprezzabile, e cioè la legge delega, anche per il dibattito che ha promosso, perché una norma discussa in Parlamento permette appunto il meccanismo delle audizioni, la costruzione di commissioni e una dialettica attorno al tema.
Certamente, nella natura stessa della legge delega si nascondono una serie di difficoltà da considerare, in quanto molto dipenderà dalle scelte che farà il Governo con l’adozione dei decreti legislativi». Santuari svolge le sue ricerche nell’ambito del diritto dell’economia e del diritto sanitario europeo e internazionale, con particolare riferimento alla regolazione pubblica in economia, agli enti non profit e alle istituzioni socio-sanitarie, ai rapporti tra questi e la pubblica amministrazione (Comuni, Asl, Regioni).
«Alcune realtà che compongono il Terzo settore – sottolinea – come le fondazioni, le cooperative e le imprese sociali, hanno avuto oggi, nel bene o nel male, un enorme sviluppo; non possiamo nasconderci che i servizi socio assistenziali, sanitari ed educativi sono oggi erogati o garantiti da tali soggetti. Su questa realtà il disegno di legge interviene nella funzione di aumentare le garanzie dei cittadini, per avere alcuni elementi di chiarezza. Il primo esempio è l’obbligo di trasparenza rispetto al bilancio, che ad oggi fondazioni e associazioni non hanno. Il disegno di legge indica che, soprattutto qualora svolgano attività imprenditoriali, esse debbano abituarsi ad adottare un bilancio che sia trasparente e comprensibile; questo, secondo me, è un dato di conquista civile. A ciò si aggiunga che il disegno prevede l’adozione di modelli di responsabilità amministrativa per questi soggetti. Tutto ciò che serve ad incrementare la capacità di rendicontazione (non solo contabile), nei confronti della comunità, oltre che dei referenti burocratici, deve essere salutato con favore. Un terzo elemento importante, più di natura giuridica, è la modifica che si dovrebbe introdurre per quanto concerne il riconoscimento giuridico di tali enti. Sebbene oggi l’iter del riconoscimento sia molto semplificato e, soprattutto in alcune Regioni, sia divenuto celere rispetto al passato, ancora si configura come un procedimento di “concessione”. Cioè: la richiesta e la presentazione della relativa documentazione non portano automaticamente al riconoscimento, che è invece a discrezione delle autorità regionali che valutano scopo e congruità del patrimonio dell’ente – e sappiamo che ogni Regione ha criteri differenti. Il fatto che il decreto individui delle soglie di patrimonio sopra le quali le autorità concedano in automatico il riconoscimento, semplificherà la vita delle organizzazioni.
Come cambia, con questo disegno di legge, la definizione di “enti del Terzo settore”?
La definizione di “enti del Terzo settore” proposta è in verità molto generale, nel senso che sono ancora citate le diverse forme giuridiche attualmente esistenti, e tali tipologie non spariscono. Lo scopo è dichiarare che nella società esistono varie tipologie di enti, che identifichiamo come quelli che perseguono una determinata finalità sociale. L’articolo 1 del disegno di legge introduce e ribadisce un concetto che in Italia è sempre stato disconosciuto, soprattutto dall’Agenzia delle entrate: ciò che caratterizza questi soggetti è innanzitutto la finalità svolta, e non l’attività. Si tratta di una rivoluzione copernicana, in quanto, se anche un ente realizzasse attività economiche ed imprenditoriali, conta principalmente la finalità con la quale vengono svolte. E ciò in altri Paesi, come in Inghilterra, è una tradizione storica. Il secondo aspetto importante è che si inseriscono nella stessa definizione sia coloro i quali svolgono attività volontaristica, sia coloro i quali svolgono attività economiche e commerciali, con altre forme giuridiche, come le fondazioni. Si tratta di una gamma abbastanza ampia, in quanto il legislatore denomina “Terzo settore” tutti i soggetti che oggi indichiamo come privato sociale, considerandone però le finalità. Come a dire che l’interesse è quello di mantenere tutti i soggetti all’interno della categoria complessiva, garantendo la possibilità di scegliere. E questo mi sembra un aspetto positivo. Prendiamo il caso specifico dell’impresa sociale. Un soggetto può essere impresa sociale nel momento in cui, decorrendo i requisiti rispetto alle finalità, ritiene di adottare uno strumento come quello dell’impresa sociale, perché la propria attività è prevalentemente di carattere commerciale o imprenditoriale. Ancora una volta, sussiste la possibilità di scelta. La norma non esprime un obbligo di diventare impresa sociale, ma, laddove tale strumento venga adottato come opzione giuridica da parte di associazioni e fondazioni, questo non esclude comunque tali soggetti dal novero di enti del Terzo settore. Tant’è che sull’impresa sociale le modifiche rispetto alla precedente legislazione sono ridotte: si tratta di un solo articolo, sull’impianto complessivo.
Quanto la riforma avrà impatto in concreto sull’organizzazione e l’amministrazione di un ente non profit?
Come impatto generale, sicuramente la legge contribuirà a fare un po’ di pulizia. Cioè, dovremo trovare un giusto equilibrio tra la necessità di mantenere realtà frutto dell’iniziativa dei privati, perché ciò è garantito per scelta costituzionale, e la necessità di strutturare alcuni meccanismi interni di funzionamento.
Parlando chiaramente, se una associazione o fondazione svolge servizi per nome e per conto anche degli enti pubblici, come le Asl, sarà bene avere nei consigli di amministrazione qualcuno che possa sostenere il ruolo. Ritengo che, di per sé, il fatto di essere volontari non assolva automaticamente ad un compito di responsabilità in certi casi molto gravoso. Quindi, senza ipocrisia, dovremo individuare negli statuti degli enti, laddove sia compatibile con le risorse, qualche forma di indennizzo o compenso per l’impegno volontario, perché non possiamo pensare di avere sul mercato dei servizi sociosanitari, dandone in mano la gestione a persone che mettono a disposizione solo il tempo del volontariato. Mi sembrerebbe una conquista di civiltà. Oppure, come provocazione, l’alternativa sarebbe quella di dare in mano tutti i consigli di amministrazione delle non profit ad amministratori delegati. Ma non sembra sia questa la volontà. Quindi, ritengo che l’impatto generale sarà positivo poiché porterà, compatibilmente con le finalità sociali, ad una responsabilizzazione e ad una professionalizzazione crescenti. Dall’altro lato, avanza l’obbligo di rivedere negli statuti regole di funzionamento interno che sono spesso lasciate alla discrezione. Mantenendo fermo tutto ciò che si può fare per evitare di gravare eccessivamente su chi si impegna per volontariato, c’è comunque la necessità di avere un minimo di organizzazione e di strutturazione, soprattutto quando queste realtà sono affidatarie di servizi da parte dell’ente pubblico.
Quali elementi relativi all’organizzazione e all’amministrazione possono essere utili da normare?
Manca un aspetto fondamentale nella norma. Gran parte dello sviluppo e della presenza degli enti non profit, intendendo quelli che domani potrebbero diventare impresa sociale, deriva dal fatto che essi svolgono attività anche per nome e per conto degli enti pubblici. Pensiamo alle numerose convenzioni in atto con fondazioni e associazioni per la gestione dei servizi sociosanitari pubblici. Questa norma, forse volontariamente (perché nel frattempo è stato approvato il nuovo codice sugli appalti), non fa menzione alcuna o pochissima rispetto al tema del rapporto tra pubblico e privato sociale, dove si gioca una grandissima fetta delle possibilità per questi enti di agire. Ma noi abbiamo, da un lato, il tema europeo con il principio di concorrenza, per il quale le associazioni di volontariato oggi, anche nel nostro ordinamento, vengono legittimate a partecipare alle gare di appalto; dall’altro, una legge 266 del 1991 che non aveva certo previsto questo tipo di meccanismo. Se nel frattempo il mondo è cambiato, sarà bene nei decreti legislativi mettere mano a questo aspetto. D’altronde, bisogna sempre ricordarsi che questi enti svolgono servizi di interesse generale.
Fonte: retisolidali.it